Da quando il DPCM del 4 marzo e tutte le proroghe successive hanno sospeso le attività didattiche, il Ministero dell’Istruzione ha iniziato le pratiche per consentirne il proseguimento online, tramite il cosiddetto e-learning.
Nel mio caso non posso ancora parlare di una vera e propria scuola online, la riorganizzazione dell’orario scolastico per permetterci una parziale continuità non è ancora stata attuata dal mio liceo. Non per superficialità o poca volontà, ma a causa della difficoltà per alcuni docenti di connettersi in rete e per alcuni studenti condizionati dalla condivisione dei dispositivi elettronici con altri membri della famiglia. In alcuni nuclei con risorse limitate, composti da uno o più genitori che provano o sono costretti a lavorare in smart-working, e figli, non è infatti facile condividere spazio, mezzi e tempo. Pare che in questa direzione si orientino gli ultimi finanziamenti alle scuole. Le prime settimane sono state caratterizzate da un sistematico assegno di teoria ed esercizi, nella speranza che noi alunni fossimo capaci per un breve periodo di procedere autonomamente nello studio. Ora invece quasi tutti i docenti si stanno attrezzando per poter sostenere lezioni almeno settimanali via web, purtroppo consapevoli dei lunghi tempi prima del rientro in aula.
Non posso negare che, anche se solo per poche ore a settimana, poter chiacchierare, ridere e scherzare con miei compagni aiuta a spezzare la solitudine. A fine lezione però si torna a respirare l’area di preoccupazione che credo regni in ogni casa. L’ansia di non sapere se continueremo a stare bene, se i nostri cari o le persone a cui vogliamo bene saranno salvi, unita a quella suscitata dalle tragiche notizie soggetto della maggior parte delle trasmissioni televisive, vive in ognuno di noi. È questo clima di incertezza e disorientamento che stressa maggiormente. Eppure è la stessa sensazione provata dalle famiglie di coloro che tentano la fuga su un barcone dalle coste della Libia, di quelli che hanno vissuto la guerra o che purtroppo la vivono ancora. Solo ora ci rendiamo forse conto che tutto questo dolore, tutta questa sofferenza è stata costantemente presente nel nostro mondo, senza però che noi ce ne accorgessimo mai, o almeno, ci soffermassimo a rifletterci.
Se è vero che il battito d’ali di una farfalla può causare un uragano dall’altra parte del mondo, è ugualmente vero che noi oggi stiamo pagando il conto di una scelta fatta forse decenni fa dall’altra parte del mondo, nello stesso modo in cui le generazioni successive pagheranno per i nostri errori. Può sembrare banale ma se la semplice organizzazione del mercato alimentare cinese, con la macellazione degli animali al momento, può essere la causa di diffusione di questa epidemia, altre migliaia di persone potrebbero morire tra mezzo secolo perché una parte della popolazione non svolge correttamente la raccolta differenziata. Non sarà il Covid-19, forse sarà l’inquinamento delle falde acquifere, ma una mia scelta di oggi potrebbe uccidere una persona in Brasile tra cinquant’anni. È questa la più grande lezione che questo drammatico periodo mi ha insegnato; ho capito che le decisioni prese non hanno solo effetto immediato nella mia cerchia ristretta ma possono anche avere conseguenze tra molti anni in posto molto lontano da me. Sebbene la mia generazione sia più sensibile al rispetto per l’ambiente e per l’altro, non è ancora del tutto consapevole che non basta pensare al piccolo nucleo che ci circonda ma alle ripercussioni a livello globale che ogni nostro singolo gesto ha. Quando Edward Lorenz provò matematicamente l’effetto farfalla non aveva ancora la possibilità di inserire il parametro globalizzazione che invece oggi non può non giocare un ruolo fondamentale nella nostra quotidianità.
Ho anche finalmente imparato il vero significato del proverbio “non rimandare a domani quello che puoi far oggi”. Quando l’ho sentito la prima volta era il tentativo di mia nonna di farmi anticipare i compiti, una sorta di impiego costruttivo del tempo dell’oggi che avvantaggia il domani, nella mia testa ha sempre mantenuto un’accezione simile, almeno fin’ora. Adesso ho invece imparato a non trascinare le cose dietro, perché potrei non avere più la possibilità di farle o concluderle. Ho lasciato rapporti in bilico su un filo o porte scardinate, pensavo di dare tempo al tempo, per poi sistemare o cambiare tutto. Solo ora ho capito quanto il tempo vada di fretta e come non si guardi mai intorno. Siamo cresciuti con la certezza di avere il mondo a portata di click ed invece, soli davanti ai nostri computer, capiamo che tutto ciò che cerchiamo è fuori da quella maledetta porta.
Lì fuori c’è il mondo che sta combattendo ma c’è anche la vita che speriamo ci aspetti. Speriamo tutti anche solo di poter scendere nella tanto snobbata piazza di paese, di poter prendere la metropolitana o di fare una passeggiata sul lungomare e in centro città.
Io aspetto l’abbraccio dei bambini con cui faccio volontariato, aspetto le lezioni di vela e la pizza con gli amici il sabato sera, aspetto la scuola e l’agitazione prima di un compito in classe, aspetto impaziente che tutto ciò che prima apparteneva alla mia normalità diventi una parte di quella futura, perché nulla sarà come prima. Probabilmente saremo più forti e consapevoli, più cauti e responsabili, e allora tutto questo sacrificio non sarà stato vano, avremmo fatto ciò che era giusto per noi stessi ma soprattutto per gli altri.