Il Paraguay non era tra le prime scelte di Giacomo, ma ora che è a metà della sua esperienza con Intercultura, ammette di essere spaventato alla sola idea di doverlo lasciare. “Sto tenendo un diario che rimarrà sempre per me qualcosa di prezioso” ci racconta prima di addentrarsi nella sua esperienza.
Con quali aspettative sei partito?
Il Paraguay non è un Paese molto conosciuto. È soprannominato “cuore del Sud America” ed è uno Stato piccolino ma bellissimo da visitare, ricco di fiumi e distese erbose. Mi aspettavo un tasso molto elevato di criminalità ma devo dire che c’è una tranquillità che non ho mai trovato altrove.
Come ti trovi a scuola?
Molto bene! Il rapporto professore-alunno qui è veramente fantastico: ci si dà del tu, si scherza e a volte ci si fanno anche i dispetti, ovviamente sempre nei limiti del rispetto. È un tipo di relazione che raramente ho trovato in Italia, che ti invoglia anche a studiare di più e a chiedere aiuto se hai problemi o difficoltà.
Ci sono abitudini o usi che ti colpiscono?
Mi colpisce e diverte la loro disorganizzazione ma, più di tutto la concezione di puntualità. Se dico di incontrarci alle 15.30, forse alle 18.00 riusciamo ad uscire. L’organizzazione è un concetto molto astratto qui. Dopo un po’ però diventi parte integrante della cultura e anche io sto iniziando a vedere l’orologio diversamente.
Ci sono stereotipi sugli italiani?
Per prima cosa, per loro ci cibiamo solo di pizza. Se ci capita di mangiarla, infatti, mi chiedono subito un parere, come se fossi uno chef stellato. E poi sono convinti che non ci laviamo. Qui fa molto caldo e la gente si fa una doccia la mattina, una dopo scuola e una prima di cena. Credo però che sia una semplice questione di abitudine.