Incontrare la scrittrice Edith Bruck è un’esperienza che non si dimentica: attraverso le sue parole rivivono i giorni tragici nei campi di concentramento.
Edith Bruck è stata recentemente ospite di un liceo romano, il Dante Alighieri, per raccontare agli studenti la sua drammatica esperienza da reclusa nei campi di concentramento durante la Seconda Guerra Mondiale.
Un’adolescenza sottratta
Ultima di sei fratelli, sin da piccola Edith è stata abituata a vivere nella povertà - essendo la sua famiglia molto numerosa - ma soprattutto con l’emarginazione: con l’emanazione delle leggi razziali, anche coloro che considerava suoi amici hanno iniziato a comportarsi in maniera aggressiva, discriminandola mediante dispetti e atti di violenza.
Dopo questo breve accenno alla sua infanzia, la Bruck con evidente difficoltà ha iniziato a raccontare la terrificante esperienza della deportazione. “Purtroppo per la millesima volta devo raccontare la stessa cosa, ma è sempre un po’ diverso” ha esordito. Con visibile dolore e malinconia, la scrittrice ci ha parlato di come, nella primavera del ’44, in seguito alla Pasqua ebraica, lei e la sua famiglia furono trasportati nel vagone di un treno regolare, sino alla capitale, nel ghetto ebraico. Edith era molto confusa, non sapeva cosa stesse succedendo, ma sospetta ancora oggi che, dati i suoi tredici anni, la sua famiglia l’avesse tenuta all’oscuro: “Secondo me, i miei genitori sapevano qualcosa; li sentivo spesso sussurrare di nascosto”. Nel giro di pochi giorni Edith e la sua famiglia furono deportati ad Auschwitz.
“Raggi di luce nel buio”
Durante il suo racconto, la Bruck si è focalizzata in particolare su alcuni episodi dai quali è emerso che anche nelle circostanze più ostili c’è sempre, nascosto, qualcosa di buono.
Il primo episodio riguarda l’atroce separazione da sua madre, argomento che dopo anni ancora la commuove. Scaraventata giù dal treno, la famiglia della Bruck si è ritrovata davanti ad un esercito di SS pronto ad un’angosciosa e inaspettata selezione. “In un batter d’occhio uomini e donne furono separati; io fui mandata con mia madre a sinistra. E ancora destra, sinistra, destra e sinistra, ma nessuno sapeva a cosa portassero l’una e l’altra. Oggi so che la destra era lavoro, la sinistra crematorio. Loro giudicavano a vista, non domandavano né nome né età. La mia sorte fu decisa da un tedesco, che si chinò su di me e mi disse di andare a destra, sussurrando. Mia madre mi urlò di obbedire, ma io non volevo”. È a queste parole che Edith si è lasciata trasportare dalle emozioni legate a questo ricordo, cominciando a piangere. “Mi aggrappai alla carne di mia madre come una selvaggia, una leonessa; e lei si inginocchiò pregando il tedesco di lasciarmi lì, io, la più piccola dei suoi figli. Il soldato non sapeva più cosa fare, nessuno capiva che in realtà voleva solo salvarmi. Prese il fucile e con il calcio di questo mi colpì l’orecchio e poi abbatté mia madre; lei cadde a terra, e io non la vidi mai più. Mi strapparono da lei e piangendo fui portata da mia sorella a destra, salva”. Un soldato nazista, dunque, inaspettatamente, si oppose alla morte di una bambina.
Dopo aver descritto la vita ad Auschwitz e dopo aver parlato della successiva deportazione nel campo di Dachau, Edith si è focalizzata su un altro particolare episodio. “Il cuoco del campo mi domandò quale fosse il mio nome. Dovete capire che dopo che si è stati chiamati per mesi 11552 è difficile comprendere quella domanda: significa che sei vivo, e sei un essere umano. E questo cuoco mi regalò un pettine che aveva nel suo taschino dicendomi di avere una figliola piccola come me. Questi sono proprio miracoli”.
Cosa ci è rimasto?
Con la sua testimonianza Edith Bruck ci ha insegnato che veramente la speranza è l’ultima a morire; ognuno di noi ha capito che ogni esperienza negativa può sempre lasciare qualche impronta positiva.
Un’esperienza incredibile che solo la scuola poteva offrirci; un modo alternativo per studiare leggendo i fatti direttamente dagli occhi di chi li ha vissuti.