“La verità, cari amici, è più grande di qualsiasi tornaconto. Datemi da una parte milioni di voti e toglietemi dall’altra parte un atomo di verità, ed io sarò comunque perdente. Lo so che le elezioni pesano in relazione alla limpidità ed obiettività dei giudizi che il politico è chiamato a formulare. Ma la verità è la verità”. Sono parole di Aldo Moro, tratte da una delle ultime, disperate lettere che scrisse dal covo brigatista in cui era tenuto prigioniero al deputato democristiano Riccardo Misasi.
Aldo Moro, quarant’anni dopo. Tanto è trascorso da quella maledetta mattina di marzo in cui venne rapito in via Fani, per poi essere ritrovato morto cinquantacinque giorni dopo, il 9 maggio 1978, con il corpo disteso nel bagagliaio di una Renault 4 rossa parcheggiata in via Caetani, a metà strada fra la sede della DC in piazza del Gesù e quella del PCI in via Botteghe oscure.
Aldo Moro e il tempo in cui bastava indicare un luogo per definire un partito; Aldo Moro e la stagione in cui la politica era tutto e, non a caso, la percentuale dei votanti era altissima e la partecipazione politica sincera e condivisa; Aldo Moro e la sua comprensione del ’68 e delle conseguenze che quell’anno e i movimenti che aveva innescato ebbero sulla società italiana; Aldo Moro, un uomo che entrò a stretto contatto con il potere senza mai essere davvero un uomo di potere, a differenza ad esempio di Andreotti; Aldo Moro e la comprensione di quanto fosse fragile la nostra giovane repubblica e di quanto fosse bisognoso di cure e attenzioni il nostro tessuto sociale e istituzonale; Aldo Moro e il suo amore per i giovani, al punto che anteponeva il suo incarico di professore universitario persino al suo ruolo di ministro degli Esteri o di presidente del Consiglio; Aldo Moro e la sua lucidità visionaria, la sua lungimiranza, la sua passione civile, il suo rifiuto di ogni fascismo, la sua bellezza interiore, la sua sobrietà, il suo garbo e la sua apparente tristezza che altro non era, in realtà, che una forma di mite timidezza; Aldo Moro, quarant’anni dopo, e quell’idea di confronto aperto e di inclusione di tutte le forze politiche nell’alveo parlamentare che faceva di lui un interlocutore privilegiato per chiunque avesse a cuore il progresso del Paese.
Quarant’anni e la sensazione, anzi la certezza, che la sua morte sia stata voluta, cercata e provocata innanzitutto da quanti non volevano che si compisse la svolta che con immensa fatica aveva costruito insieme a Enrico Berlinguer.
Quarant’anni in cui il corso della nostra storia è stato non solo diverso e peggiore rispetto a come sarebbero andate le cose se il suo capolavoro politico fosse andato in porto ma che ha visto anche bruciarsi la dignità dell’Italia e, con essa, il concetto stesso di democrazia, mai così a rischio come in questo tempo intricato e straziante, privo di statisti, popolato per lo più da una classe politica senza una visione né un’idea di futuro, mai così asfittico, vuoto e incapace di offrire risposte ad un paese sfiancato dalla crisi e dalla sfiducia in se stesso.
Quarant’anni e il nulla: un immane senso di atomizzazione sociale, di solitudine, di straniamento, in attesa di un domani che non può sorgere, di una speranza che non ha ali sufficientemente robuste per spiccare il volo, di un destino incerto, maledettamente individuale, incapace di pensieri lunghi e di costruire un progetto per la collettività.
Quarant’anni e un orizzonte ma così asfittico e ristretto, costellato di addii, di tradimenti, di delusioni impossibili da dimenticare, di ferite che non si rimarginano facilmente e, forse, non si rimargineranno mai, di emozioni venute meno e di comunità in cammino che hanno progressivamente ceduto il passo alle ambizioni smisurate di singoli improvvisatori.
Quarant’anni e la portata profetica di queste riflessioni, affidate a Eugenio Scalfari un mese prima di essere rapito e pubblicate postume dall’allora direttore di Repubblica: “Se continua così, questa società si sfascia, le tensioni sociali, non risolte politicamente, prendono la strada della rivolta anarchica, della disgregazione. Se questo avviene, noi continueremo a governare da soli, ma governeremo lo sfascio del Paese. E affonderemo con esso”. Era il 18 febbraio 1978. Dieci giorni dopo Moro avrebbe rivolto ai gruppi parlamentari della DC il celebre discorso sul tempo che ci è dato vivere e sulla necessità di assumersi delle responsabilità più grandi delle proprie speranze e di ciò che vorremmo per il nostro futuro: il discorso di uno statista, per l’appunto, il progetto visionario di un sognatore concreto e di un idealista che aveva capito prima e meglio di chiunque altro la direzione verso cui si sarebbe andati nel caso in cui fosse fallito il suo tentativo di superare la “conventio ad excludendum” ai danni del Partito comunista. Sarebbero terminate le stragi, cosa che poi è prontamente accaduta, ma non per motivi umanitari bensì perché non ce ne sarebbe più stato bisogno, in quanto la barbare e il pensiero unico sarebbero andati avanti col pilota automatico e senza incontrare alcun ostacolo sul proprio cammino.
Aldo Moro capiva, Aldo Moro sapeva, Aldo Moro aveva la certezza del fatto che anche le faticose conquiste compiute sul terreno dei diritti sociali e civili sarebbero state messe a repentaglio, a cominciare dalla straordinaria politica di riforme che caratterizzò gli anni Settanta e che ebbe il proprio culmine nell’introduzione dell’aborto, la famosa 194, di cui ricorre, a sua volta, il quarantesimo anniversario.
Aldo Moro: un uomo con un fortissimo senso del limite e dello Stato, il cui esempio è rimasto e rimarrà per sempre, al pari della sua saggezza, delle sue scelte e delle sue intuizioni che garantirono al Paese una delle stagioni più feconde che si ricordino, la cui brutale interruzione ci ha fatto sprofondare in un abisso di vuoto dal quale non siamo più riusciti ad uscire. Perché l’italia ha cominciato a morire, almeno dal punto di vista politico (e la politica, in una società autenticamente democratica, è tutto), la mattina del 16 marzo 1978 in via Fani, per poi spegnersi definitivamente il 9 maggio dello stesso anno in via Caetani. In mezzo, molta ipocrisia, poca lucidità, una certa dose di idiozia e, soprattutto, la cattiveria feroce di quanti volevano fermare ad ogni costo il disegno dello statista pugliese. Dopo è venuto il baratro. Nel bagagliaio di quella Renault 4 rossa non c’era, infatti, solo il cadavere di Moro ma anche quello della DC e del PCI e, mi duole dirlo, ma anche Enrico Berlinguer è morto quel giorno, salvo prolungare l’agonia per altri sei anni, fino allo strazio di Padova e a quella marea oceanica di persone che venne a San Giovanni a rendere l’ultimo omaggio ad un uomo che, in realtà, se n’era già andato da tempo, con il suo cuore devastato dal dolore di aver subito una sconfitta epocale e la sua lungimiranza che si era dovuta inchinare ad un disegno soverchiante e ben più esteso dei nostri angusti confini nazionali.
Aldo Moro, quarant’anni dopo, mentre siamo qui a galleggiare in questo tempo sospeso, in attesa di una nuova stagione di sviluppo democratico che forse non verrà mai, non essendoci più dei leader in grado di costruire un progetto che vada al di là di se stessi, di immaginare l’affermazione di una collettività anziché il trionfo effimero del proprio straripante ego.
Caro presidente, non so cosa possiamo scorgere noi con i nostri piccoli occhi mortali: di sicuro, se ci fosse un po’ di luce, in questo Paese in guerra con se stesso, sarebbe bellissimo.