Di Stephen Hawking, scomparso ieri all'età di 76 anni, rimarranno in particolare tre cose: il genio, l'ironia e la fragilità. Del genio è inutile parlarne: le sue intuizioni sono arcinote, al pari dei suoi studi relativi al cosmo e all'infinito, con quello sguardo sempre proteso verso l'ignoto che lo rendeva non solo affascinante ma anche straordinariamente lungimirante in una stagione afflitta dal "presentismo" e dall'incapacità di andare oltre la contingenza. Dell'ironia è bene, invece, parlarne, in quanto un uomo che sopravvive per oltre cinquant'anni alla SLA non può che essere un gigante, animato da una capacità di sopportazione e di accettazione dei propri limiti assolutamente fuori dal comune. E poi c'era la fragilità: la sua più grande virtù, la caratteristica che lo ha reso Hawking e ne ha fatto un'icona globale della conoscenza.
Perché questo pover'uomo, con un fisico sempre più martoriato, costretto a vivere paralizzato su una sedia a rotelle, quest'uomo sempre più debole e impossibilitato anche solo a concepire la normalità, quest'uomo ha avuto il merito di riuscire a trasformare le proprie ferite in un viaggio verso la meraviglia dell'inesplorato. Era, dunque, una sorta di Jules Verne applicato alla scienza, un gigante minuto capace di volare con la fantasia, un Piccolo Principe che anche lassù, ne siamo certi, starà sognando i suoi quarantatre tramonti; anzi, forse li sarà andati a raggiungere, preparandosi a spiccare un volo che adesso non avrà confini, che gli consentirà di esplorare l'universo nella sua interezza, che lo renderà libero, leggero, finalmente certo di non incontrare più alcun ostacolo sulla propria strada. Diciamo, dunque, che Hawking non se n'è andato ma si è semplicemente trasferito, stella fra le stelle, nel silenzio misterioso di una meraviglia di cui ora è parte.