Lasciatemelo dire da juventino: se l'Inter non ci fosse, bisognerebbe inventarsela! Marzolina, pazzerella, borghese, altolocata, con quarti di nobiltà mai dismessi e, al contrario, sempre rivencicati con orgoglio, con un simbolo disegnato dal pittore Giorgio Muggiani (di cui ricorre l'ottantesimo anniversario della scomparsa), nata presso il ristorante milanese "L'Orologio" per iniziativa di quarantatre dirigenti del Milan stanchi della presidenza autoritaria di Gianni Camperio e da sempre antitetica ad ogni forma di provincialismo, l'Inter è l'unica società italiana ad aver sempre giocato in Serie A. E ora che compie centodieci anni, un traguardo di tutto rispetto, al netto di un campionato compromesso dagli errori di Spalletti, da un mercato estivo non all'altezza e da un gioco a tratti troppo brutto per essere vero, baciato inizialmente da una fortuna immeritata e infine oltremodo punito quando la dea bendata si è spostata su altri lidi, questa squadra assurda, apparentemente senz'anima e in perfetta sintonia con i difficili equilibri della Milano contemporanea, ritrova all'improvviso il proprio antico fascino.
Dire Inter, infatti, significa avere fin da subito una visione internazionale (d'altronde, questo è il suo vero nome); tuttavia, significa anche pensare al mirabolante successo conseguito il 24 aprile 1910 per 10 a 3 a scapito della fenomenale Pro Vercelli dell'epoca, che però, per protesta, schierò in campo la formazione giovanile, e poi allo squadrone di Meazza, quando il fascismo la costrinse a chiamarsi Ambrosiana, all'epopea di Skoglund e Lorenzi nei primi anni Cinquanta e all'epica morattiana (nel senso di Angelo) di Herrera, Corso, Mazzola, Facchetti, Picchi e Suárez, delle due Coppe dei Campioni e delle due Coppe Intercontinentali consecutive, degli scudetti a ripetizione e della disfatta di Lisbona prima e di Mantova poi, nel '67, quando l'inter pose fine al proprio ciclo di vittorie perdendo la Coppa dei Campioni contro il Celtic Glasgow e lo scudetto a vantaggio della Juve operaia di Heriberto Herrera. Poi vennero i difficili Settanta, gli anonimi Ottanta, interrotti unicamente dai successi dell'Inter tutta italiana di Bersellini e di quella in salsa tedesca del Trap, infine i Novanta del predominio assoluto di Juventus e Milan e i Duemila della rinascita morattiana (nel senso di Massimo), in seguito allo scandalo di Calciopoli e alle conseguenze che ne sono derivate.
Quando si pensa all'Inter, pertanto, viene sempre in mente qualcosa di provvisorio, di apparentemente folle, di illogico, di magnificamente fragile e, proprio per questo, di ammaliante, di particolare e di dinamico, specie se si considera la propensione al cambiamento che caratterizza quell'ambiente
Potrà sembrare incredibile, ma la Juve è la squadra del popolo, delle periferie e del Meridione; l'Inter, al contario, è la società più amata dal ceto medio borghese, dai salotti buoni, dai benestanti della Milano che conta, dai sostenitori della filosofia arancione di lady Moratti e da quell'universo sociale che si divide tra Mediobanca e la lettura del Corriere della Sera, e non c'è niente di male in tutto ciò.
E poi penso a Prisco, al Peppin, ai suoi aneddoti fulminanti, alla sua battuta sul voler diventare milanista un secondo prima di morire, così "ce ne sarà uno di meno sulla faccia della Terra", e al suo invito a contarsi le dita dopo aver stretto la mano a uno juventino; penso a Prisco e, da avversario, lo rimpiango, proprio come rimpiango il nostro Avvocato, simboli di un'Italia e di un calcio che erano migliori non perché all'epoca ci fosse l'Eldorado ma semplicemente perché erano più genuini, più veri, più umani.
Penso all'Inter, alla sua storia gloriosa e secolare, alle sue vittorie e ai suoi suicidi sportivi e, in conclusione, mi sento di ribadire che un club così, se non ci fosse, bisognerebbe inventarselo e tenerselo stretto. Perché gli scudetti passano, i rancori si dissolvono, la rivalità rimane ma la passione, dirompente, ci accomuna.
Buon compleanno Inter, con immutata stima!