Cento anni dopo ci troviamo a commemorare una mattanza come se fosse un orgoglio nazionale, a considerare il sangue di oltre seicentomila soldati come un qualcosa di normale, di giusto, finanche di positivo, a ragionare in termini violenti e guerreschi in merito a quella che, saggiamente, Benedetto XV aveva saggiamente definito l'"inutile strage".
Un secolo dopo siamo qui a parlare di tattiche e trincee, a ricordare persino Cadorna, ossia il generale che gestiva l'esercito con una ferocia inumana e venne travolto a Caporetto dalla strategia a tenaglia di Rommel, per essere poi sostituito dal più manierato Diaz. Siamo qui a considerare la storia come se si trattasse di una partita a Battaglia navale, ignari delle conseguenze provocate da quel conflitto e dimentichi del suicidio dell'Europa che ha condotto il nostro continente in uno stato di perenne subalternità.
4 novembre: è giusto ricordare; anzi, credo che sarebbe ancora più giusto ripristinare la festa nazionale e fermarsi a riflettere su ciò che è stato e su quanto quella lezione sia tuttora attuale. Ascoltare la storia è, infatti, l'unico modo per affrancarsi dai suoi demoni, e il demone principale, in questo caso, si chiama fascismo, frutto della disperazione maturata nelle trincee, del sacrario di Redipuglia, della Spagnola che costituì una sorta di peste moderna, di un'economia in ginocchio e di una cultura nazionale disposta a tollerare l'estinzione della democrazia in nome dell'uomo forte in grado di risollevare le sorti del Paese.
Poi, per carità, c'è stata anche la Battaglia del solstizio, c'è stato il Piave, c'è stata Vitorio Veneto, l'armistizio di Villa Giusti e le doverose celebrazioni di un'epopea tragica che ha avuto comunque il non piccolo merito di rendere italiane Trento e Trieste, le terre irredente che andarono a completare un quadro nazionale che soffriva non poco per loro assenza. C'è stato anche il monumento al milite ignoto, l'Altare della Patria, in tutta la sua monumentale bellezza, e c'è stata la gloria effimera di un Paese che per un breve periodo si è sentito vincitore, prima di sprofondare in un abisso di cui pochi, pochissimi, almeno all'inizio, avevano compreso la portata.
Lascia senza parole anche la faciloneria con la quale oggi viene utilizzato il termine dannunziano di vittoria mutilata, senza rendersi conto, evidentemente, che quell'espressione fu l'anticamera del fascismo, con l'impresa di Fiume, la Reggenza del Carnaro e tutto l'armamentario culturale e ideologico, con annessi propositi golpisti, che contribuì a creare il terreno ideale per la Marcia su Roma.
Ormai la storia viene raccontata a sprazzi, senza un briciolo di umanità, senza alcun senso di giustizia né della misura, con una cattiveria strumentale e finalizzata ad esaltare la propria parte politica, piegata alle esigenze contingenti di piccoli uomini senza cultura né rispetto per il prossimo.
Ormai tutto viene dato per scontato e l'identità italiana intesa nel senso di un patriottismo di comodo che nulla ha a che spartire con gli ideali risorgimentali che animarono i patrioti sul Carso e, successivamente, sui monti della Resistenza.
Ormai anche la Grande Guerra è entrata, a pieno titolo, nel circuito mediatico, con buona pace di chi vi ha creduto, di chi vi è morto, di chi non si è rassegnato alla barbarie nemmeno in quelle trincee maledette, invase dal fango e straziate dalle malattie, dei versi di un giovane Ungaretti e della composizione di Ermete Giovanni Gaeta, E.A. Mario, che ancora oggi è considerata la colonna sonora delle nostre passioni più intense e dei nostri sentimenti più nobili.
Cento anni e un senso di tristezza ci pervade, ora che di fronte al nulla contemporaneo ci siamo resi improvvisamente conto di aver bisogno di eroi.