Messico '68: le Olimpiadi del sangue e del riscatto
Roberto Bertoni | 25 ottobre 2018

Cominciarono nella piazza di Tlatelolco, la plaza de Las Tres Cultures, le Olimpiadi di Città del Messico, anno 1968, il fatidico Sessantotto. 

Cominciarono con il massacro di oltre trecento studenti dissidenti ad opera dell'esercito inviato dal presidente Gustavo Díaz Ordaz, mentre protestavano contro i costi esorbitanti della manifestazione a scapito della dignità e delle esigenze di un popolo costretto a vivere nell'indigenza. E poi, come detto, era il '68, ispirava ovunque il vento della rivolta, anche se qui le rivendicazioni non riguardavano le rose, come in Europa, ma soprattutto il pane, la possibilità di affrancarsi dallo stato di povertà, la riscossa dopo una vita trascorsa a soffrire ai margini della società e del mondo. 

Cominciarono con il ferimento di Oriana Fallaci, giunta in Messico per seguire quella rivolta che, a suo dire, e non a torto, aveva poco in comune con il Sessantotto europeo, trattandosi di una battaglia di popolo, dal basso, nulla a che vedere con i "figli di papà" della buona borghesia che animavano i cortei di Roma o di Parigi

La speranza del cambiamento aveva contagiato anche loro, certo, ma era un cambiamento diverso rispetto a quello che avevano in mente i coetanei che guardavano al futuro ricchi di speranze e prospettive: a spingere i sessantottini di Città del Messico era la miseria, la disperazione, la mancanza di tutto, il bisogno di conquistarsi un posto nel mondo o, quanto meno, di rendersi visibili, di cominciare ad esistere, di scoprire il gusto di essere una comunità in cammino e, ovviamente, in lotta. 

1968, l'anno in cui tutto sembrava possibile, anche che due neri, Tommie Smith John Carlos, dopo aver conquistato il primo e il terzo posto nella finale dei 200 metri piani alzassero in aria il pugno avvolto da un guanto nero, simbolo del black power, e rivendicassero i diritti della propria gente, sconvolta dalla ferocia e dal razzismo dilagante nell'America ancora fondamentalmente segregazionista. 

Cominciarono, non a caso, pochi mesi dopo i delitti illustri di Martin Luther King Robert Kennedy: un colpo mortale per l'immaginario progressista, quando già si pregustava il ritorno di un Kennedy alla Casa Bianca otto anni dopo la vittoria di John nel '60. 

E non è un caso nemmeno che accanto a Smith e Carlos, sul secondo gradino del podio, ci fosse un australiano bianco, Peter Norman, il quale chiese di poter indossare, proprio come i suoi fratelli di colore, avversari ma ora alleati in una battaglia comune, la spilla del Progetto Olimpico per i Diritti Umani, ricordando al mondo i soprusi inflitti dai coloni bianchi agli aborigeni. 

Furono, poi, le Olimpiadi di Věra Čáslasvká, una delle più grandi ginnaste di tutti i tempi, la quale, tuttavia, essendo cecoslovacca, protestò platealmente nei confronti dell'Unione Sovietica che in agosto aveva invaso il suo Paese e represso nel sangue la Primavera di Dubček, ponendo fine alla sua utopia del socialismo dal volto umano: un atto di ribellione che le costerà caro, proprio come la firma del manifesto anti-comunista Duemila parole, rendendole la vita estremamente difficile e condannandola ad un oblio durato decenni e dissoltosi unicamente in seguito alla caduta del Muro e all'avvento di un galantuomo come Václav Havel alla presidenza. 

Ventiquattro primati battuti in otto giorni, un'Olimpiade memorabile, un capolavoro come il salto rivoluzionario di Fosbury che cambierà per sempre la storia del salto in alto e una meraviglia come l'impresa di un altro americano di colore, Bob Beamon, che nel salto in lungo arrivò a saltare 8,90 metri. 

Se vogliamo comprendere davvero cosa sia stato il '68, quale sia stata la sua portata globale e cosa ci abbia lasciato in eredità dobbiamo guardare a questa manifestazione messicana, con il suo devastante carico di tragedia e poesia, dolore e grandezza ma, più che mai, una sconfinata voglia di abbattere tutti i muri, tutti i fili spinati, tutte le frontiere e gli staccati. Perché questo è stato il '68: una comunità universale, una collettività che riscopre il valore della fratellanza, un insieme di donne e uomini che si prendono per mano, un mondo lacerato dalle guerre ma ancora capace di esprimere sentimenti di umanità, una disperazione che induce alla riscossa, a mettere in discussione se stessi, a credere nella follia di poter davvero cambiare lo stato delle cose e, spesso, anche a riuscirci. 

Il '68, rimanendo in ambito sportivo, ha dato vita all'Associazione Italiana Calciatori, quando grandi campioni come MazzolaRivera e Juliano decisero, insieme all'avvocato Sergio Campana, a sua volta ex calciatore, di prendersi cura dei giocatori meno noti e drammaticamente sfruttati dalle proprie società. 

Fu, in pratica, un I care collettivo, un inno al ripudio del menefreghismo, un abbraccio globale, un chinarsi sui problemi dell'altro e un venirgli incontro, pure a costo di sacrificare una parte di sé e del proprio successo. 

Fu l'anno della generosità, di Carlos che vide amore anziché paura negli occhi di Norman, del rifiuto dell'ordine costituito e della lenta, progressiva e inesorabile affermazione di diritti e libertà troppo a lungo negati. 

Non si è mai ripetuto un anno così, non si ripeterà forse mai più; e se anche dovesse accadere, e non è da escludere, per una miriade di motivi, non sarà in Europa.