16 ottobre 1943: per non dimenticare
Era l'alba di un sabato di metà ottobre, nel giorno sacro degli ebrei, quando il Ghetto ebraico di Roma divenne il teatro di una tragedia a lungo sospettata e infine materializzatasi nel momento peggiore, quando alcuni ingenuamente credevano di essere ormai al riparo.
16 ottobre 1943, settantacinque anni fa. E il pensiero corre a quella popolata che aveva appreso, casualmente, del rastrellamento in programma e aveva tentato di avvertire i residenti nel Ghetto, i quali invece si fidarono di Kappler e pensarono che si sarebbe accontentato dei cinquanta chili d'oro che egli aveva chiesto loro in cambio della salvezza.
Torna in mente lo sgomento di quella mattina presto, gli assalti casa per casa e i pochissimi che riuscirono a mettersi in salvo, magari rinnegando se stessi, fingendo di non essere ebrei o venendo salvati dalla benevolenza di un commerciante o di un vicino.
E torna in mente il fatto che partirono in 1.259 dalla stazione Tiburtina e tornarono da Auschwitz-Birkenau in 16 (di cui una sola donna: Settimia Spizzichino), in condizioni disperate, dopo aver conosciuto tutto l'orrore del mondo e aver assistito a soprusi, violenze, sevizie e gesti di sterminio e annientamento che non avrebbero mai più dimenticato.
Passeggio talvolta per le vie del Ghetto, mi fermo a osservare le strade, le abitazioni e gli esercizi commerciali e ad ogni angolo mi immagino un bambino che piange, una mamma che cerca di metterlo in salvo, i latrati dei cani, le urla delle SS: mi immagino, insomma, di rivivere le scene di quella mattina e mi assale un senso di sconforto, di sgomento, di solitudine, come se mi trovassi sul palcoscenico di una tragedia che non è mai finita, che è tanto lontana quanto ancora viva, che non si è consumata del tutto, che non è ancora diventata storia, che è ancora attuale, presente nel nostro tempo di risorgenti fascismi e di strazianti discriminazioni.
Penso al fatto che nel giorno della memoria di una deportazione maledetta si debba star qui a parlare di un'altra probabile deportazione di esseri umani, colpevoli stavolta di essere fuggiti dalla miseria e dalla guerra dei propri paesi per venire a cercare un minimo di dignità e conforto in Italia.
Penso ai bambini che non possono mangiare a mensa, in quanto i loro genitori, provenienti da contesti di fragilità e disperazione e costretti ad accontentarsi dei lavori più umili, non si possono permettere di pagare la retta della mensa. E penso anche, in questo caso, all'oceano di solidarietà che hanno ricevuto da parte di gente anonima e straordinaria, capace di raccogliere 60.000 euro in poche ore per sanare questa vergogna intollerabile in un paese civile.
Penso ai casi quotidiani di violenza e barbarie e mi domando: cos'è il nazismo? Cos'è il fascismo? Evitiamo di tracciarne un ritratto insulso e caricaturale: il nazi-fascismo, al pari della criminalità organizzata, altro non è che la prevaricazione dell'altro, la distruzione del debole, l'esclusione di chiunque vi si opponga, fino alla sua eliminazione fisica e, prim'ancora, morale.
Non so se le nuove generazioni sappiano cosa sia successo quella mattina nel cuore di Roma: so soltanto che dovrebbero venire a visitare il Ghetto quasi in pellegrinaggio, che dovrebbero sentire forte il bisogno di conoscere, di osservare con i propri occhi, di scoprire e di indignarsi. So che, oggi più che mai, è necessario lottare e che per farlo è indispensabile sconfiggere il germe tragico dell'indifferenza.
So che è presente, nella nostra società, una latente tendenza a eliminare il prossimo, se non ancora materialmente almeno dalla nostra vista, confinando il diverso e colui che ci spaventa in una sorta di prigione dalle sbarre invisibili ma spessissime.
So che quella mattina di ottobre il nazismo toccò contemporaneamente l'apice della propria crudeltà e il punto di non ritorno, ponendo fortunatamente le premesse per la propria sconfitta.
So che un minimo di memoria è rimasta e che qualche benemerito continua a coltivarla, anche nelle scuole, il che mi infonde speranza e un desiderio ancora più forte di giungere al compimento del progetto europeo, affinché la barbarie non si ripeta.
So che le pietre d'inciampo, oltre ad essere bellissime, di raccontano le storie atroci di chi non è tornato dal viaggio verso la morte e che bisognerebbe sempre ritagliarsi un po' di tempo per fermarsi a leggere quei nomi.
So che viveva e vive tuttora lì un'umanità coraggiosa e determinata a non lasciarsi travolgere dall'abisso della storia, neanche quando sembra più fondo.
So che qualcuno crede ancora nel prossimo e che abbia un senso fare del bene agli altri, a dimostrazione che da quell'inferno, comunque, qualcosa abbiamo imparato.
So, infine, che quell'inferno può sempre ripetersi, e per questo è doveroso studiarlo, raccontarlo, parlarne e non stancarsi mai di avere sete di giustizia e una volontà ardente di applicarla agli altri.
16 ottobre 1943: per non dimenticare.
P.S. Ricorre oggi il primo anniversario dell'assassinio di Daphne Caruana Galizia, una sorta di coraggiosa giornalista maltese che ha pagato con la vita il prezzo delle proprie denunce. A lei il nostro affettuoso ricordo e la nostra gratitudine, ai suoi cari la certezza che non smetteremo mai di chiedere verità è giustizia in suo nome.