A quarantacinque anni dallo scoppio di uno dei capitoli più sanguinosi dell'interminabile guerra arabo-israeliana nel giorno sacro per gli ebrei dello Yom Kippur, coincisa in quel tremendo 1973 con l'inizio del Ramadan, sacro agli arabi, in occasione di questa ricorrenza è doveroso analizzare cosa abbia significato quel conflitto per l'avvenire del Medio Oriente e del mondo intero.
Yom Kippur significa, infatti, crisi petrolifera, domeniche a piedi, introduzione dell'ora legale, avvio di una fase di austerity che, di fatto, non ci ha più abbandonato, radicalizzazione dell'universo arabo ed esasperazione del clima in Israele.
Quel dannato conflitto, tanto per dire, causò la fine dell'egemonia labourista nello Stato ebraico, costrinse alle dimissioni Golda Meir e Moshe Dayan, rispettivamente primo ministro e ministro della Difesa, agevolò l'ascesa della destra del Likud e il successo elettorale, nel '77, di Menachem Begin.
E in Egitto alla stagione drastica di Sadat, cui pure va ascritto il non piccolo merito degli accordi di Camp David proprio con Begin, propiziata nel '78 dal presidente americano Carter, per questo insignito del premio Nobel per la Pace (al pari di Begin e Sadat), all'epopea tragica di Sadat fece seguito il trentennio del suo vice Mubarak, con tutto ciò che questa continuità autoritaria ha rappresentato.
Si evitarono guai peggiori grazie al tempestivo intervento del potentissimo segretario di Stato americano Henry Kissinger, il quale impedì all'esercito israeliano di distruggere la Terza armata egiziana, favorendo così la trasmigrazione del Paese dall'orbita sovietica a quella statunitense. Un calcolo cinico, dunque, all'insegna di un secondo fine palese e volto ad indebolire la potenza rivale; un gesto furbo, ma senz'altro utile per scongiurare conseguenze assai peggiori in una polveriera che fin dal '67, anno della Guerra dei sei giorni, non ha avuto pace nel senso letterale del termine.
L'orrore di dell'autunno non ci ha più abbandonato, quella guerra è rimasta scolpita dentro di noi, ci ha perforato l'anima, modificato lo spirito, impedito di guardare al futuro con ottimismo e ha mutato in peggio gli equilibri globali, fino a condurli a un punto di rottura, rendendo impossibile ogni prospettiva di dialogo, confronto e apertura al nuovo. In pratica, ci ha impoverito in tutti i sensi e condannato a vivere nella paura e nell'incertezza.
Il disastro contemporaneo è cominciato allora: per incapacità, per viltà, per una precisa e devastante scelta politica e militare su entrambi i versanti.
Non dimenticare quei venti giorni è il minimo, anche se troppe volte si sono ripetuti scenari analoghi e ormai della stabilità mondiale non è rimasto più nemmeno il ricordo. Né, ahimoi, abbiamo conservato la lucidità politica per analizzare quella stagione, ricondurla nel suo contesto storico e far tesoro degli errori di allora per evitare di ripeterli.