La Catalunya ha sempre avuto un temperamento unico, forte, deciso, con una vocazione all’indipendenza che non è mai stata un mistero per nessuno, anzi.
Se c’è una cosa che abbiamo imparato grazie alla grande lezione che vivere nella nostra Europa ci insegna ogni giorno è che viviamo tutti in tesserine di un grande puzzle colorato. Prese da sole queste tesserine hanno un proprio senso e una propria vita, grazie ai quali l’Europa assume il senso profondo che ha, ma a volte alcuni pezzi di questo puzzle decidono di staccarsi dal disegno d’insieme. È successo con la Brexit, della quale stiamo ancora cercando di capire a pieno la portata socio-politica, ma soprattutto emotiva, e sta succedendo con quello che accade tra Spagna e Catalunya.
Abbiamo voluto dare voce a chi sta vivendo questo momento di tensione in prima persona: vivere quello che i propri genitori e i propri nonni hanno già vissuto ai tempi di Franco, nel 2017, ha dell’incredibile e dell’incubo a occhi aperti. Alla domanda su cosa voglia dire per lui essere catalano Oriol Puig, consigliere del distretto di Sant Martì e, tra le altre cose, attivista indipendentista, risponde che per lui “essere catalano significa amare questa terra, questa gente, questo Paese, questa cultura, questa lingua… non è necessario vivere in Catalunya: puoi anche vivere in Italia e amare comunque questo Paese. Essere catalano per me vuol dire difendere la democrazia e il diritto di voto della cittadinanza, quello che stiamo facendo adesso qui: non stiamo più parlando di indipendenza, ma di democrazia”.
A turbarlo maggiormente non è “il risultato del referendum o la mobilitazione della gente, ma la reazione dello Stato Spagnolo: una risposta violenta, aggressiva, offensiva, che ha represso anche le persone non indipendentiste. Le immagini delle persone ferite in strada parlano più forte di mille parole: è successo di tutto ed è una vera e propria vergogna.”.
Quello che maggiormente desidera è “un dialogo tra pari, tra catalani e spagnoli, poter parlare allo Stato Spagnolo, all’Europa e al mondo intero dando loro del “tu” senza intermediari, che è quello che stiamo cercando di fare. Non riesco a capire come ci siano personaggi politici che negano un dialogo per parlare di come rendere effettiva la Repubblica e che negano un dialogo che non sia quello da sovrano e suddito”.
Teia Goñi Gómez, operatrice sociale specializzata nel settore educativo, quando le chiediamo di spiegare a noi italiani cosa possa voler dire essere catalani ci risponde che “non solo parliamo in catalano: pensiamo in catalano”.
Non c’è una specifica cosa che l’ha spaventata maggiormente, in questo periodo: “la violenza in strada, il discorso dell’odio, il fatto che non c’è una volontà politica reale per dialogare, parlarne. È la forza bruta che parla; non si usa il pensiero, neanche la volontà di capire quelli che non la pensano come te. E lo dico a proposito di entrambi gli schieramenti. Spero che vada tutto bene, che ci sia un bel rapporto tra i governi. Bisogna far capire a tutti che possiamo discutere le cose ed arrivare ad un punto d’incontro e non di scontro. Ci sono i bambini a scuola che chiedono ai genitori cosa stia accadendo: si percepisce una tensione reale in casa, in strada, nei mezzi.”
Ma come vive una situazione del genere chi ha scelto di trasferirsi a Barcellona per lavoro o per piacere che sia? Ce lo siamo fatti dire da Chiara Crispino, giovane startupper italiana, alle prese quotidianamente con UI/UX Design, che vive a Barcellona da quasi due anni.
“Vivere in Catalunya, in particolare a Barcellona, significa per me trovarsi in un meraviglioso mix di locale e internazionale. La sensazione è quella di stare in un piccolo paesino e contemporaneamente essere al centro del mondo. La cosa più stupefacente è che queste due sensazioni, che sono agli antipodi, riescono a coesistere letteralmente l’una nell’altra. Nelle vie, nel lavoro, nelle amicizie”.
Di tutto quello che ha visto in questi giorni di confusione, tensione e ansia l’ha colpita “la vera partecipazione che i catalani hanno messo in questa situazione. Non è una novità e si sa che la questione dell’indipendenza va avanti da molto tempo, ma ho potuto toccare con mano come i sentimenti siano stati (e siano) autentici e profondi. Vedere anziani e bambini della mia via in coda per votare il giorno del referendum e ascoltare i loro discorsi mi ha fatto sentire profondamente priva di senso civico, sebbene in Italia per oltre dieci anni sia stata scrutatrice ai seggi elettorali”.
La speranza è quella che accomuna le due fazioni, di qualsiasi nazionalità esse siano: “spero si riesca a uscirne con un compromesso che renda soddisfatti entrambi. Sulla purezza dei sentimenti non si discute, ma a volte secondo me è necessario allargare un po’ la propria visione, pur senza svilirsi. Spero che tutto questo possa essere fatto non con la forza e le urla, ma con la diplomazia. Ma ogni giorno che passa questo sembra più lontano”.