Occhi chiari, capelli bianchi da quando aveva vent’anni, voce profonda, una vita difficile vissuta al buio di mille nascondigli. Questo è il ritratto dell’uomo che il mondo conosce con il nome di Assange e che ricorda per quello che oggi chiamiamo “lo scandalo WikiLeaks”.
Julian Assange, classe 1971, nasce nel Queensland nel nord dell’Australia. Come molti altri bambini nati nei primissimi anni Settanta, Julian è figlio del Vietnam, con una madre outsider e un padre mai incontrato.
Nel ‘72 Christine sposa Brett Assange, direttore di un teatro itinerante, e con lui si sposta di luogo in luogo insieme al figlioletto. Il matrimonio dura pochi anni e Christine, ora con due figli, riprende quella vita da nomade che l’aveva sempre caratterizzata. Secondo alcune fonti, quando era bambino Assange avrebbe cambiato casa 37 volte, studiando nelle diverse biblioteche cittadine in cui si trovava, senza mai avere la possibilità di andare in una vera e propria scuola.
Brett Assange lo ricorda come un piccolo adulto dall’autocontrollo fuori da comune e dall’incredibile capacità di distinguere il bene e il male.
È stato però solo dietro ad un computer che Julian ha trovato la sicurezza che cercava: ha iniziato da giovanissimo l’attività di hacker e a 16 anni si faceva chiamare Mendax, firmando i suoi colpi con la sigla «Sovversivi internazionali». Sapeva già scrivere programmi per il Commodore 64 e violare sistemi informatici di multinazionali delle armi, come Lockheed Martin, e dei centri di sicurezza americana come Nasa e Pentagono, nonché dell’agenzia australiana per le comunicazioni sottomarine.
Per queste spiccate abilità Julian si iscrive alla facoltà di matematica e informatica all’Università di Melbourne, dove però non si laureerà, preferendo un lavoro a sua detta “più utile” e quindi diventando consulente della polizia australiana per indagini sulla pedopornografia.
La svolta decisiva arriva a 35 anni, quando l’hacker fonda il sito WikiLeaks. Dal 2007 al 2010 il sito ha scarsa visibilità in America e in Europa - mentre in paesi come il Kenya ha già avuto un certo successo - ma sei anni fa arriva la svolta definitiva.
Il vero e proprio “caso WikiLeaks” esplode con la pubblicazione del celebre Collateral Murder: un video che mostra chiaramente l’uccisione di 12 civili Iracheni da parte di un plotone americano a bordo di un elicottero Apache. Quello che scosse l’opinione pubblica più che il video in sé e le relative violazioni dei diritti umani, furono le risate e gli scambi di battute dei soldati dopo aver massacrato degli innocenti tra le strade di Baghdad.
Nel luglio dello stesso anno WikiLeaks pubblica gli Afghanistan war logs: 91.731 documenti militari relativi alla guerra in Afghanistan; Julian Assange quel giorno provocò un altro squarcio nel petto americano che diventò incredibilmente più profondo e pericoloso il 28 novembre 2010.
Quel giorno furono resi pubblici 251.287 file non autorizzati sull’intera diplomazia americana nel mondo, tutti i cablogrammi delle loro 274 ambasciate, le schede dei detenuti di Guantanámo e commenti, spesso inopportuni, sui maggiori leader del mondo.
Questo per gli USA fu un attacco diretto: ogni segreto, ogni crimine di guerra, ogni abuso di potere, di giustizia, dei diritti umani era stato messo a disposizione di tutti con un semplice click sul mouse.
Tutto ciò che di più losco potevano nascondere le stelle e le strisce della più grande potenza mondiale in un attimo era diventato di dominio pubblico.
Ma per Assange quello era solo l’inizio: la sua visione dell’informazione, il suo modo di concepire internet erano la punta di quell’iceberg che è oggi il “caso Assange”.
Se Chelsea Manning, militare americana che passò a WikiLeaks il celebre video iracheno, è stata condannata a 35 anni di carcere rischiando, tra l’altro, la pena di morte, a Julian non è capitata una sorte migliore.
Il tunnel giudiziario in cui è rimasto coinvolto non sembra, ad oggi, lasciare uno spiraglio di luce: a pochi giorni dalla pubblicazione dei file criptati Assange viene indagato per uno scandalo sessuale avvenuto, si suppone, tempo prima in Svezia e per cui era già stato interrogato e scagionato, ( in particolare si tratta di un’accusa di stupro per aver avuto rapporti sessuali non protetti seppur consenzienti con due donne, atto che nella legge svedese è considerato un crimine minore, ma sempre stupro). Nel 2012, dopo essersi consegnato alle autorità britanniche, il giornalista australiano, consapevole della possibilità di estradizione in Svezia, si rifugia presso l’ambasciata dell’Ecuador a Londra dove chiede asilo politico come rifugiato.
La richiesta viene subito accettata e da quel giugno 2012 Julian Assange vive in una stanza 20 metri per 20, ricavata dall’ex bagno femminile al piano terra dell’edificio, senza neppure quell’ora d’aria che spetta ai detenuti, senza la possibilità di uscire per effettuare una lastra alla spalla (come ha richiesto quest’estate dopo una caduta), senza protezioni e senza speranze.
L’unico spriaglio di giustizia, nello scandalo mediatico del giornalista, è arrivato a gennaio 2016 quando sotto sua esplicita richiesta l’ONU si è pronunciata sul caso. Julian aveva infatti scritto su Twitter: “Se l’Onu annuncerà domani che ho perso la mia causa contro la Gran Bretagna e la Svezia, uscirò dall’ambasciata venerdì a mezzogiorno per essere arrestato dalla polizia britannica; al contrario, se verrà riconosciuto che gli Stati coinvolti hanno agito illegalmente, mi aspetto la restituzione immediata del mio passaporto e la fine di tutti i nuovi tentativi di arresto”. L’ONU non ha fatto attendere la propria risposta, dichiarando la detenzione di Assange illegale e Julian è uscito, sul balcone della sua ambasciata, per mostrare orgoglioso i documenti appena ricevuti. Quest’inverno qualcosa sembrava quindi veramente cambiato nello scenario della sua personale catastrofe giudiziaria e invece a oggi Assange rimane confinato nell’ambasciata a Londra poiché sia la polizia britannica che la polizia svedese si sono pronunciate contro l’istanza delle Nazioni Unite, confermando l’ordine di arresto nel caso il giornalista uscisse dalle mura dell’edificio a Knigtsbridge.
A prima vista questo caso mondiale sembrerebbe un gioco a guardie e ladri privo di senso: non basterebbe forse uscire dall’ambasciata, essere interrogato dalle autorità svedesi (che tra l’altro non chiedono l’arresto del giornalista ma semplicemente un incontro con lui) e concludere questo ridicolo appello?
La risposta è chiaramente no. Non è possibile perché una volta portato in Svezia, con ogni probabilità, Assange sarebbe estradato in America dove è accusato di crimini come alto tradimento e spionaggio, e rischierebbe, tra le altre cose, la pena di morte.
Un limbo infinito, che sta togliendo un uomo alla sua famiglia, alla sua vita e alla sua aspirazione professionale e sociale. Quello di Julian infatti era un sogno, come raccontano quelli a lui vicini, il sogno di usare la sua intelligenza per aiutare gli altri e non per fare soldi, il sogno di un mondo un po’ più libero e di un “grande fratello” meno totalitario.
Quella di Assange rimane sicuramente una figura dalle mille sfaccettature e interpretazioni: da hacker a giornalista, da criminale a eroe della libertà, da terrorista - come dichiarato dal vicepresidente americano Joe Biden - a candidato premio Nobel per la pace e “Uomo dell’anno” secondo Time nel 2010.
Non sappiamo come andrà a finire, ma sicuramente Julian Assange ci ha spiegato qualcosa sulla libertà di stampa e di opinione del nostro Occidente ed è riuscito, come sognava da bambino, a cambiare un po’ il mondo.
Credit foto:
Una scena del film “Il quinto potere” sulla vita di Assange. Foto di Frank Connor