Arriva settembre e, puntuale come un collaboratore scolastico a far suonare la campanella, porta alla ribalta la serie di riforme che vogliono “rinfrescare” il sistema educativo italiano. Tra queste, la proposta di ridurre il ciclo di istruzione superiore da cinque a quattro stagioni scolastiche sembrava aver subito un freno: sostenuta dal ministro Profumo (gov. Monti), attuata nel settembre 2013 dal ministro Carrozza (gov. Letta) e bloccata temporaneamente nel 2014, essa conta ad oggi un solo istituto in più rispetto alle undici scuole, paritarie e non, che inizialmente vi aderirono. Tuttavia per l’anno scolastico 2017-2018, il ministro in carica Giannini non sembra aver intenzione di sospendere la sperimentazione, firmando anzi un decreto che ne prevede l’estensione ad altre 60 classi.
Intanto, almeno una ventina di richieste di adesione al progetto sono state respinte dal MIUR a causa degli standard ancora troppo bassi e delle notevoli difficoltà per le scuole nel rispondere ai requisiti necessari. Si tratta infatti di pianificare un autonomo e flessibile programma di studi quadriennale che garantisca la preparazione fornita normalmente in cinque anni, con l’accortezza di non farlo pesare a chi dovrà affrontarlo personalmente, evitando cioè giornate scolastiche lunghe e intense. Allo stesso tempo, bisogna dare priorità ai veri e propri caratteri riformistici del “liceo breve”: tecnologia, attività laboratoriali, orientamento, alternanza scuola-lavoro e CLIL, ovvero l’apprendimento di una lingua straniera attraverso metodi didattici innovativi.
L’idea iniziale è quella di adattarsi ai Paesi europei, nella maggior parte dei quali i diciottenni sono già diplomati e pronti per il fatidico ingresso nel mondo del lavoro. È stato così assicurato che per la compressione di un programma quinquennale in quattro anni basta una selezione degli insegnamenti irrinunciabili per ogni disciplina, sull’esempio dei licei italiani all’estero, dove il primo anno contiene gli argomenti del nostro tradizionale biennio.
Chissà se qualcuno si è chiesto cosa ne pensano i nostri docenti, che in cinque anni riescono a concludere i programmi a fatica, costretti a cedere preziose ore di lavoro ad attività come l’alternanza.
Sembrerebbero inoltre vantaggiosi gli effetti economici e occupazionali della riforma: un esubero di quarantamila docenti da reimpiegare in attività non curriculari e oltre un milione di euro da ripartire in bonus per ogni scuola (da stabilire se tutte o solo le superiori).
Tra i commenti degli italiani in rete, uno in particolare colpisce come un ironico annuncio pubblicitario: “Diplomi, diplomi! Sconto di un anno ai primi cento clienti!”. Ci si aspetta forse che schiere di ragazzi corrano a iscriversi nei licei con il solo desiderio di finire prima, rinunciando a scegliere il meglio per sé. Che si arruolino come esecutori delle leggi di un mercato in cui non c’è neanche posto per disoccupati precoci. Non saranno forse la realtà italiana e il futuro che li aspetta ad essere sbagliati, piuttosto che la scuola?
Qualcuno poi fa notare come le scuole accettate finora per la sperimentazione siano, se non d’élite, comunque d’eccellenza, immaginando con eccessiva semplificazione che qualsiasi altro istituto sarebbe in grado di dare gli stessi risultati.
L’impressione, alla fine, è che scelte così importanti per le sorti della scuola siano precluse ai diretti interessati e che ogni passo in avanti sulle orme dei vicini europei non sia mai un reale progresso dei diritti dei cittadini.