Settant’anni fa, per la prima volta in una delle società di stampo patriarcale per eccellenza – l’Italia – la donna ha la possibilità di decidere in prima persona cosa fare del proprio futuro e di quello del proprio Paese: votare.
Per i mariti, per i padri e per i fratelli il voto era da considerarsi la semplice normalità; per le donne, invece, rappresentava il culmine di anni di strenue lotte, dolorose perdite e di un continuo sacrificio.
La lotta partì in Inghilterra all’inizio del Novecento con le zelanti “Suffragette”, per poi propagarsi in tutto il nord Europa e negli Stati Uniti.
In Italia, fanalino di coda, casa della cristianità, tutto fu sicuramente più difficile e tormentato. Da sempre giudicata e sottovalutata, la donna è riuscita con difficoltà a migliorare la sua condizione, partendo da una situazione iniziale pessima: non poteva vendere beni immobili, né gestire i soldi che guadagnava senza il consenso del marito.
Il percorso di emancipazione femminile inizia con i primi impieghi nelle fabbriche dopo la prima guerra mondiale.
Svolta cruciale, però, c’è solo con la lotta armata nella Resistenza, fianco a fianco con gli uomini, che alla fine del conflitto porterà le donne finalmente alle urne.
Ad oggi, cosa possiamo fare noi, uomini e donne del ventunesimo secolo, per tentare di onorare il loro sacrificio? La risposta è probabilmente la più ovvia: continuare a votare sempre, in ogni occasione in cui lo Stato ce lo richiede e, soprattutto, non stancarsi mai di farlo per non “auto-relegarsi”, di nuovo, a quel riduttivo ruolo di moglie e di madre in cui la donna ha sempre vissuto a causa dell’uomo.
Non è stato facile, e non lo sarà ancora per molto, dato che la donna non ha ancora raggiunto la piena parità con l’uomo, sia nel lavoro, che nella società.
In Italia il tasso delle donne presenti in Parlamento è 29,6% al Senato e 31,3% alla Camera, mentre quello delle donne nordeuropee è del 41,3%: possiamo fare di meglio.