Cercando su internet informazioni sul caso di Giulio Regeni si trova di tutto: autorevoli fonti italiane, stimati giornali stranieri, video, interviste, fotografie; è stata addirittura aperta una pagina di Wikipedia che porta il nome “Omicidio Regeni”.
Si trova, senza problemi, anche la sua pagina Facebook: poche fotografie ci fanno pensare ad un ragazzo con la valigia in mano, sveglio, simpatico, probabilmente l’immagine di Enrico Berlinguer durante un comizio suggerisce le sue idee politiche.
Questo profilo però dice ben poco di Regeni; bisogna andare più a fondo per sapere qualcosa che vada oltre a quello che si è detto e ridetto, oltre la superficie della storia di un ragazzo italiano assassinato dieci giorni dopo il suo ventottesimo compleanno.
Ma ormai sul web di lui si può sapere qualsiasi cosa: luogo di nascita, studi, nome e cognome di familiari, amici, foto della fidanzata, insomma praticamente tutto.
È questo il problema giornalistico dei grandi casi discussi: poche sicurezze e tanti particolari. Quando non si riesce a scavare nel fondo di una storia per trovare la verità, si scava in superficie. Così gli italiani diventano un po’ amici di Giulio, sanno che università ha frequentato e perché si trovava in Egitto, sanno chi è sua madre e hanno visto decine delle sue fotografie.
Ma quando si arriva alle domande importanti: perché Giulio è stato ucciso? Da chi è stato torturato per giorni? In quel caso cala un angosciante e ingiusto silenzio.
Per conoscere davvero la storia bisogna, come sempre, fare un passo indietro: sappiamo che il ragazzo aveva partecipato l’11 dicembre all’assemblea di un sindacato egiziano, e che il 14 gennaio aveva pubblicato sotto il suo solito pseudonimo un articolo critico nei confronti del regime di Al Sisi: annunciava un’ondata di scioperi e stigmatizzava la decisione del governo di regolamentare in modo più restrittivo l’azione dei sindacati. Durante l’assemblea Giulio, unico occidentale presente, notò di essere stato spiato e fotografato da uno sconosciuto, e secondo gli amici aveva paura.
iulio Regeni, laureato presso la rinomata università di Cambridge, scriveva per l’agenzia di stampa Nena, con lo pseudonimo di Antonio Druis e al momento della sua scomparsa si trovava in Egitto per svolgere proprio una ricerca sui sindacati indipendenti.
È scomparso il 25 gennaio, la denuncia è arrivata dall’amica Noura Wabby, dopo che Giulio non si era presentato in piazza Tahrir dove altre persone lo aspettavano per festeggiare un compleanno. A quella festa Regeni non arriverà mai: il suo corpo mutilato è stato ritrovato il 3 febbraio in un fosso nella periferia del Cairo. L’autopsia italiana parla di contusioni e abrasioni in tutto corpo, lividi derivanti da calci, pugni ed aggressione con un bastone, tutte le dita di mani e piedi spezzate, gambe, braccia, scapole e sette costole rotte, coltellate multiple sul corpo, comprese le piante dei piedi, tagli sul viso e alle orecchie e bruciature di sigarette.
Le versioni sul caso di Giulio sono molte, ma tra i tanti elementi che avvicinano le prove alla tesi dell’omicidio politico c’è certamente il fatto che l’American University del Cairo, dove il giovane era ricercatore, è da tempo oggetto dell’attenzione del Mukhabarat, il Servizio segreto egiziano che fa capo al Ministero dell’Interno, un apparato chiave del governo di Al Sisi. Ma l’Egitto nega. Il governo nega. La stampa nega.
A fronte di tutti i dati che comprovano un omicidio di Stato, la nuova “pista” arrivata dalla procura egiziana appare inconcludente tanto quanto le altre che volevano la conclusione delle indagini per, nell’ordine: incidente stradale, festino gay, rapina e torture da parte dei Fratelli Musulmani. La quarta versione, infatti, è quella secondo cui Giulio Regeni sarebbe stato ucciso per vendetta o per motivi personali: anche questa fa apparire sempre più invalicabile il muro di silenzio e inganni alzato dal governo egiziano.
L’Italia e il mondo intero, indignati, non sembrano comunque voler rinunciare alla verità, ora così lontana e sfocata: Amnesty International Italia ha lanciato la campagna “Verità per Giulio Regeni”; è nata anche una petizione online sul portale Change.org, a cui hanno aderito più di 100.000 sostenitori; il Parlamento europeo a Strasburgo ha condannato la tortura e l’uccisione del ricercatore e le continue violazioni dei diritti umani del governo di Al Sisi in Egitto; il New York Times, con un editoriale, ha attaccato duramente la Francia, definendone «vergognoso» il silenzio di fronte alle richieste dell’Italia di fare pressione sull’Egitto.
Tante parole e qualche fatto, ma la situazione non si smuove: un mare di indizi, un oceano di ipotesi e qualche goccia di verità.
E se da una parte fonti interne della polizia e dei servizi segreti egiziani riferiscono che Giulio Regeni venne effettivamente arrestato dalla polizia prima di scomparire, dall’altra il governo non sembra mollare la presa.
Giulio credeva alla verità, ha lottato e per ottenerla, con ogni probabilità, è stato ucciso. Chi lo conosceva parlava di lui come un’eccellenza italiana nel mondo, un animo coraggioso, un cuore grande. Chissà cosa avrebbe detto di Rania Yassen, giornalista per la tv saudita Al Arabiya, che ha parlato del caso come un complotto contro il Cairo. Non è bastata la tortura e l’omicidio: Giulio ora deve sopportare le bugie, gli inganni, gli insulti, il male.
Ed è proprio del male che ha voluto parlare sua madre, intervistata per Amnesty International, dicendo che nel momento del riconoscimento ha visto sul viso del figlio “tutto il male del mondo” e lo ha potuto riconoscere solo dalla punta del suo naso, accettando poi il dolore di parlare solo per mobilitare gli altri e trovare una risposta e un motivo alla tragica e ingiusta morte del figlio.
Perché quello di Giulio, come ha sottolineato la madre, purtroppo non è un caso isolato.
Nel 2015 in Egitto ci sono stati 676 torturati e 464 scomparsi, e negli stessi giorni in cui Regeni è stato ucciso il governo egiziano ha chiuso altri due casi di attivisti assassinati come “vittime di crimini comuni”.
Solo ad aprile sono sparite 86 persone, 9 sono state uccise nelle prigioni e 6 egiziani sono stati giustiziati sul posto. Tra questi c’era un ambulante che ha rifiutato di offrire gratis una tazza di thè a un poliziotto.
In Egitto si continua a uscire di casa e a non tornarci più. Si scompare, si perde la libertà e poi la vita. In Egitto si va a studiare e si torna in una bara, torturati e mutilati. In Egitto si muore a ventotto anni, cercando la verità.
Ma intanto, la stampa nega.