Nel recente dibattito culturale e politico relativo alla Buona Scuola abbiamo assistito a un’interessante caccia alle streghe riguardante la teoria del gender, sobillata da opposizioni politiche e da movimenti che ben poco sanno della riforma, e ancora meno forse della tanto conclamata teoria. Al di là delle esasperazioni “ideologiche”, è bene chiarire cos’è, o meglio cosa non è la teoria del gender.
Quando l’ignoranza genera confusione
Indicata da molti come “un’idea che sostiene la non-esistenza di una differenza biologica tra uomini e donne”, la teoria del gender è in realtà una distorta fusione delle definizioni di “gender studies” e “queer theory”, due terreni realmente esistenti, che va a seminare un campo fertile di ignoranza con un’idea che non è attestata né teorizzata da nessuno, se non da chi questa teoria la combatte.
Se gli studi di genere rappresentano tentativi di interpretazione – non univoci anzi – dei significati che assumono nella società e nella cultura il genere maschio-femmina, la queer theory è una teoria che critica la sessualità e il genere come meccanismi imposti ed escludenti dalla società. Dalla confusione dei due campi, alimentata in particolare dalla paura e dall’ostilità, per il radicalismo della seconda teoria, è nata la teoria del gender, direttamente dal ventre e dalla mente di chi vorrebbe combatterla, ma attraverso la propria ignoranza l’ha addirittura creata.
L’incriminato comma 16 della Buona Scuola
In realtà, questa confusione riguardo al gender non è recente, ma risale ai primi anni ‘90. Le ultime manifestazioni per i diritti civili e alcuni elementi presenti nella riforma della Buona Scuola l’hanno riportata alla luce delle cronache e dei mediocri palinsesti televisivi del pomeriggio. Incriminato è il comma 16 della riforma, che “promuove nelle scuole l’educazione alla parità tra i sessi, la prevenzione della violenza di genere e di tutte le discriminazioni, al fine di informare e di sensibilizzare gli studenti, i docenti e i genitori”. La disposizione è stata interpretata da molti come un sostanziale via libera all’indottrinamento ideologico di bambini e ragazzi al gender e all’omosessualità, con conseguente crollo della famiglia tradizionale e del suo fondamentale ruolo nell’educazione dei figli, sancito peraltro dall’art.30 della Costituzione.
In realtà, come spiegato anche dal MIUR, la disposizione dà attuazione soltanto ai principi costituzionali di pari opportunità e non discriminazione, nonché alle stesse direttive europee, in cui non rientrano, né esplicitamente né implicitamente “le ideologie gender e l’insegnamento di pratiche estranee al mondo educativo”.
Ma non solo. A ribadire l’inconsistenza delle accuse di indottrinamento ideologico è stata anche parte del mondo cattolico: Don Lorenzo Celi, Direttore dell’Ufficio Diocesano dell’Educazione e della Scuola di Verona, in una nota ha consigliato di informarsi sulla questione nella sua totalità ed ha indicato l’informativa ministeriale come corretta e degna della massima attenzione da parte delle famiglie.
“Scosse” per il cambiamento
Liberata dunque la Buona Scuola dai fantasmi dell’ideologia gender, occorre però approfondire le tematiche stesse che hanno dato il via alle polemiche. Il comma 16 della legge ha la sua ragion d’essere non nella retorica elettorale, ma in situazioni concrete che sono emerse sempre di più in questi anni, grazie a politiche di integrazione, di lotta alla discriminazione e invito alla denuncia che si sono fatte strada negli ambienti educativi, e che quindi vanno analizzate ed approfondite attraverso discussioni il più possibile libere da false informazioni.
Le politiche contro la discriminazione di genere trovano, in particolare, ottimi alleati in Associazioni no profit come quella di “Scosse”, nata nel 2011, che promuove attività di integrazione e di pari opportunità nelle scuole e non, attraverso la formazione/informazione degli studenti, ma soprattutto dei docenti: «Sono loro la chiave del cambiamento - dice la Presidente Monica Pasquino - anno dopo anno incontrano generazioni diverse. È da loro che parte l’educazione al cambiamento». Ma se per cambiare il mondo dobbiamo prima cambiare noi stessi, è proprio questa la parte più difficile, perché, come conferma Pasquino, «le resistenze individuali e collettive al cambiamento sono molte. La causa delle discriminazioni sono i preconcetti e gli stereotipi: tutti ce li hanno, grandi e piccoli. Sono delle vere e proprie gabbie, trasmesse da libri, mass media, ma anche dalla scuola. Acquisirne consapevolezza è il primo passo, ma è anche il più difficile».
Se lo stereotipo è a scuola…
Di gabbie e stereotipi ha a lungo parlato e discusso l’esperta di pedagogia di genere e delle pari opportunità Irene Biemmi, che ha indicato proprio la scuola come luogo e strumento chiave per analizzare il fenomeno degli stereotipi e soprattutto per combatterlo: «Da tanto tempo si ritiene che la scuola sia un luogo di effettiva parità, privo di discriminazioni di genere - afferma Biemmi - Le ragazze statisticamente sono addirittura più brave, quindi sembra che non ci siano proprio più barriere. In realtà esistono ancora stereotipi che agiscono a livelli più “sotterranei”. L’esempio emblematico è quello di molti libri di testo per bambini in cui si continua a tramandare un immaginario del maschile e del femminile che spesso è anacronistico. Le mamme stanno a casa, conducono una vita domestica e sedentaria, mentre gli uomini fanno qualsiasi lavoro possibile, anche di grande prestigio; le donne al massimo sono rappresentate come maestre. Questo ha delle serie ripercussioni anche sul futuro di ragazze e ragazzi: per quanto riguarda l’università o le scelte liceali, le ragazze preferiscono l’ambito della formazione e dell’istruzione, mentre i ragazzi l’ambito tecnico-scientifico, statisticamente più valido per il mercato del lavoro».
…e all’università
Effettivamente, facendo riferimento all’indagine ISTAT “I percorsi di studio e di lavoro dei diplomati” appare chiaro come le donne continuino a privilegiare le facoltà umanistiche, dove costituiscono rispettivamente l’80% degli iscritti a Psicologia e il 68% a Lettere. Sono invece solo il 30% degli iscritti nelle facoltà scientifiche e meno del 20% nella facoltà di Ingegneria.
Resta da rilevare che i risultati femminili sono migliori di quelli maschili, con minore tasso di abbandono, tempi di laurea più brevi e voti più alti. Inoltre, dagli anni ‘90 ad oggi, le percentuali di iscrizione femminili sono superiori a quelle maschili, tanto da far sì che alcuni economisti inizino a cercare di dare una spiegazione alla minore presenza di studenti maschi all’università.
Cambio di mentalità
La stessa Biemmi porta un dato interessante: «L’80% del corpo docenti è femminile. C’è un altissimo tasso di “femminilizzazione” della scuola. Perché nonostante i molti docenti donne, temi di parità e di lotta agli stereotipi a scuola non entrano? Su questo dovrebbero riflettere le stesse donne, perché sono loro che si occupano dell’educazione degli adulti futuri. Il problema è che anche loro portano in classe e a casa i retaggi culturali della società, e quindi gli stereotipi». La professoressa Biemmi propone un unico modo per uscire da questo circolo vizioso: formare gli insegnanti, affinché insegnino il cambiamento. «Il cambiamento è già avvenuto, almeno in parte. Ciò di cui si parla in merito a parità di genere non è solo teoria, ma una realtà ben visibile, che fatica però ad essere accettata e a svilupparsi».
Anche se alcune posizioni possono sembrare eccessivamente radicali, la questione degli stereotipi e delle discriminazioni è un terreno fertile di considerazioni ed analisi da poter fare. L’importante è lasciarlo libero da disinformazioni, e da paure. Lo stesso vale per noi.