Nessuno scrive più a mano. Immersi nell’era della tecnologia che invade ogni aspetto della nostra vita, non ci siamo accorti che tra le tante cose che ci siamo lasciati rubare dalla tastiera di un pc o dallo smartphone che abbiamo in tasca, c’è la capacità e l’emozione di esprimerci con la nostra grafia. Se ne sente la mancanza? Probabilmente no, dirà il businessman incravattato mentre manda una mail o un freddo sms di quattro parole alla moglie. Scrivere al computer è più facile, meno faticoso e permette di cancellare, riscrivere, riorganizzare qualsiasi cosa con un semplice clic. È uno strumento utile per molti, dall’impiegato all’aspirante scrittore che può racchiudere le sue idee in migliaia di grigi caratterini sullo schermo.
E se non è soddisfatto, invece di accartocciare il foglio con gesto teatrale, può eliminare tutto in pochi passaggi ed ecco che la pagina è brutalmente bianca. C’è anche chi sostiene, come il pediatra Italo Farnetani, intervistato sul “Corriere della Sera – Scuola”, che il corsivo debba essere abolito dall’insegnamento nelle scuole, perché «se il corsivo ormai non esiste sui libri che leggiamo, né sul computer, né sui social network, perché usarlo a scuola?». Un’affermazione senza dubbio pungente, ma che fa riflettere sulla direzione verso cui stiamo andando. Insegneremo davvero ai nostri figli a scrivere con le abbreviazioni, a premere dei tasti, a essere in da piccoli totalmente spersonalizzati dal mostro tecnologico? Perdere la propria grafia personale significa perdere una parte fondamentale di se stessi, una parte che cresce con noi, che cambia, che esprime il nostro stato d’animo anche più delle parole. Giovanni Pacchiano, ex professore, in un articolo intitolato Elogio del Corsivo, pubblicato su “Sette”, dice di ricordare i suoi alunni anche attraverso la loro scrittura, in quanto «specchio di un mondo interno a cui a volte un insegnante può accedere anche attraverso la scrittura dell’allievo». Capiamo quindi quanto un semplice gesto sia espressione di qualcosa di magico, di intimo, qualcosa che rivela ciò che siamo.
Non serve andare molto indietro nel tempo per ricordare quante cose venivano naturalmente scritte a mano, inchiostro su foglio, con tutto ciò che questo comportava: sbavature, cancellature, ghirigori, errori ortografici che nessuno autocorrect avrebbe nascosto. Le ragazze scrivevano diari segreti e li nascondevano, perché i loro genitori non vedessero pagine in cui il nome del ragazzo amato era scritto con la grafia più bella e decorata: ora quelle ragazze aggiornano un blog o il loro status su Facebook e non importa se tutti possono leggere quei caratterini spenti e uguali a tutti gli altri. Un sorriso malinconico compare sul volto a pensarci ora. Pensiamo alle lettere alle famiglie
scritte dai soldati durante le guerre per capire quanta emozione si può celare in un foglio di carta, scritto con una grafia piena d’amore, di speranza.
Sembra quasi assurdo oggi pensare a quanti capolavori della letteratura siano stati scritti su fogli di carta, con dell’inchiostro vero, cancellando, strappando, ricominciando mille volte, quando il blocco dello scrittore era davanti a una pagina bianca, non a un computer. Allora scrivere era un lavoro anche fisico, che coinvolgeva, in un rapporto intimo, la mente e la mano dello scrittore.
Era un lavoro molto più difficile di quanto lo sia oggi, è vero, ma era intenso, magico e nessuno poteva pensare di improvvisarsi scrittore facilmente, buttando giù qualche pensiero online e sentendosi realizzato dopo qualche “mi piace”. Opere complesse, intricate architetture di significati sono state concepite senza il “taglia e incolla”. Scrivendo a mano si correva un rischio che ora, nell’era tecnologica della comodità e della velocità a tutti i costi, non siamo più capaci di correre: il rischio di emozionarsi. E invece bisogna trovare il coraggio di essere anacronistici.