L'opinione
La buona azienda
Fino a che punto è veramente "buona" questa nuova scuola?
Maria Saiz | 29 ottobre 2015

L’aggettivo ‘buono’, secondo il dizionario italiano, significa ‘di qualità’, ‘vantaggioso’. Eppure quando leggiamo o sentiamo pronunciare l’espressione “Buona scuola” non si profila nella nostra mente l’idea di una scuola di qualità, vantaggiosa. “Buona scuola” è, appunto, il nome dell’ormai nota riforma scolastica voluta dal governo Renzi e approvata dal Parlamento. Il nome, che in un primo momento ci aveva tanto entusiasmati, si è dimostrato una delusione. Ci hanno consultati, facendoci credere che davvero a capo del nostro Stato ci fosse qualcuno interessato al nostro punto di vista, ma nessuno ci ha presi in seria considerazione. Quale studente avrebbe mai potuto proporre la figura di un preside dai super poteri? Ebbene sì, i presidi potranno nominare i supplenti, modificare l’offerta formativa dell’istituto e, addirittura, giudicare la validità di un professore. Peccato, però, che la professionalità di un docente non si misuri in titoli di studio e corsi di aggiornamento, né tantomeno in base alle attività extracurriculari che propone a scuola. Il pericolo è che la riforma ci consegni una scuola in cui gli insegnanti si preoccuperanno più del parere del dirigente che dell’opinione degli studenti. Un altro punto fondamentale della riforma scolastica è l’alternanza scuola-lavoro per far sì che gli studenti non acquisiscano soltanto le conoscenze, ma anche le competenze. L’idea di fondo potrebbe anche essere ‘buona’: a preoccupare sono le modalità di attuazione. Durante gli ultimi tre anni di scuola superiore sono previste almeno 400 ore di lavoro negli istituti professionali e 200 nei licei da fare nel corso dell’anno scolastico: ma in che modo? Di certo non si può sottrarre tutto questo tempo al monte ore di lezione: sarebbe come perdere quasi 7 settimane di lezione soltanto nei licei; e noi non siamo lavoratori, ma studenti.