Emergenza migranti
La paura del cambiamento
Siamo di fronte alla più grande emergenza umanitaria che l’Unione Europea abbia dovuto affrontare negli ultimi anni. Continui ed incessanti flussi migratori travolgono confini e barriere. Ma come si stanno comp
Loris Genetin | 22 ottobre 2015

Più di centomila in un mese. Arrivano, spesso dopo un viaggio che è significato morte per alcuni compagni, carichi di speranza per un futuro migliore. Il flusso migratorio proveniente principalmente da Africa settentrionale, Medio Oriente e Asia verso l’Europa non sembra attenuarsi. Secondo gli ultimi dati Frontex, l’Agenzia europea per i flussi migratori, nei soli primi sette  mesi  del  2015 il numero di ingressi registrati è di  340.000, contro i 280.000  dell’intero 2014. Come reagisce l’Europa a questa emergenza? Certo i piani ci sono, ma allora perché sembrano non funzionare? Cosa impedisce  a questa enorme macchina d’accoglienza di operare  nel migliore dei modi?

Le quote-Paese

Il  27 maggio  2015 il commissario agli affari interni  e all’immigrazione Dimitris Avramopoulos ha presentato i dettagli del Piano europeo secondo cui 40.000 migranti che necessitano di protezione internazionale  dovevano essere  ricollocati dall’Italia e dalla Grecia – Paesi maggiormente  interessatii  dai flussi migratori – in altri Stati  Ue. Vengono esclusi dalle quote di assegnazione Irlanda, Danimarca e Regno Unito che possono scegliere  di  accettare o rifiutare  tali  suddivisioni. In realtà  nei mesi successivi  il Piano  non  è stato  accolto positivamente da tutti i Paesi dell’Unione, e  soltanto il  14 settembre si è  arrivati  all’accordo definitivo, non senza polemiche. Paesi come Slovacchia, Polonia, Repubblica Ceca e Ungheria sono contrari di base  e continuano a dichiararsi poco disponibili all’accoglienza. D’altra parte, anche Germania e Francia che inizialmente avevano dato maggiore  disponibilità  hanno annunciato che  riprenderanno i controlli  alle  frontiere. Proprio in questi  giorni il presidente della Commissione europea Juncker  ha  parlato  di 120.000  profughi  da  dividere  fra gli Stati comunitari, da aggiumgere ai 40.000, ma un accordo al momento sembra  lontano. In base a quali criteri però  vengono  stabilite le quote di assegnazione per i diversi Paesi? I parametri su cui si basa questo tipo di scelte sono quattro: il Pil, la popolazione, il livello di disoccupazione e i rifugiati già accolti sul territorio nazionale.

 

Il diritto d’asilo

Naturalmente non tutti  i migranti godranno di queste ricollocazioni: solo coloro a cui è stato  riconosciuto “un evidente bisogno di protezione  internazionale in Europa” potranno beneficiare di questo piano. Al momento, la concessione dello  status di rifugiato è differente fra i vari Paesi Ue: si passa  dalla Svezia, che accoglie oltre il 70% delle domande, all’Ungheria, che non supera il 10%. Secondo il regolamento di Dublino, inoltre, i richiedenti asilo devono obbligatoriamente presentare domanda  nel Paese  in cui sono  arrivati. La Commissione Europea sta lavorando  in questi  giorni proprio  al superamento delle norme di Dublino e alla definizione di criteri comuni per la concessione del diritto d’asilo. 

La barriera  dell’est

Ma per giungere a un accordo è necessaria una condivisione nelle strategie da  parte  di  tutti  i Paesi europei. Cosa non facile, se pensiamo  ai governi conservatori  che  si sono  insediati da  poco  in alcuni Stati. A maggio 2015, ad esempio, in  Polonia si sono svolte le elezioni presidenziali, che hanno visto  vincitore  con  il 53%  dei  voti  l’ultranazionalista conservatore  Andrzej Duda. La vittoria  di  un personaggio proveniente da un mondo conservatore e così nazionalista  rappresenta un pericolo  reale  per l’Unione europea,  perché contribuisce a un parziale isolamento di uno Stato membro e a varie tensioni per la gestione di questioni  di politica  estera, come appunto l’emergenza migranti. Ed esemplare è il rifiuto da parte  del governo polacco di accogliere tutti i migranti che la Commissione europea aveva previsto. Appare  evidente che  la  paura del cambiamento e del  diverso prendono il sopravvento sulla ragione e, in queste condizioni, la gestione di un’emergenza simile risulta essere ancora più complessa. Uno degli avvenimenti che nelle  ultime settimane ha  scosso (ma  evidentemente  non  a  sufficienza) tutta  l’Europa è  stata la  decisione del  primo  ministro  ungherese Viktor  Orbàn di  costruire un  muro rinforzato con il filo spinato lungo 175 chilometri che, una volta finito, verrà presidiato    dall’esercito.Dove? Naturalmente lungo il confine con la  Serbia, in modo  tale che i disperati  provenienti  dall’Asia e dal Medio Oriente che prediligono la via dei Balcani per  giungere  in Europa non possano arrivare in Ungheria.  Dati alla  mano,  è più  che  evidente che la  percentuale di migranti  che decide di fermarsi sul territorio governato da Orbàn è minima rispetto a quelli che optano per altre mete, ma l’atteggiamento di totale  chiusura rischia di diventare una  polveriera,  con i tantissimi migranti che riescono a passare lo stesso e a transitare  sul suolo ungherese.

La strumentalizzazione dell’emergenza

Guardando la  nostra   Italia, che insieme  alla  Grecia si  è  accollata  finora  il  peso   più  grande, non  sono mancate voci di dissenso. Prima delle    elezioni regionali di maggio scorso,  alcuni schieramenti  politici hanno incentrato le proprie campagne elettorali sul “problema immigrazione”, intercettando il malcontento e il malessere della popolazione, come se i due aspetti fossero automaticamente collegati. La conseguenza è lo sviluppo di un odio infondato nei confronti dei profughi che continua ad alimentare una spirale pericolosa e distruttiva  basata sulla  paura  del  “diverso”.  Colpisce che tali posizioni trovino il favore delle generazioni più giovani, normalmente più “progressiste” delle altre:  il pericolo è che atteggiamenti qualunquisti  influenzino l’opinione  pubblica, attribuendo a problemi del  tutto  interni  cause esterne, e proponendo soluzioni sbagliate  o inefficaci.

Da problema a risorsa

Alla luce di queste vicende, appare  chiaro che oltre alle questioni  di tipo economico e organizzativo vi  siano problematiche assai  più complesse  da risolvere a livello culturale e sociale.È innegabile che stiamo assistendo ad uno dei più grandi flussi migratori della storia  recente  e che la  gestione   di  un  fenomeno simile  non può essere che difficoltosa, ma forse sarebbe utile cambiare prospettiva. Migliaia di  uomini e donne sbarcano o giungono via terra sui territori  europei  e qualsiasi sia il loro Paese di origine hanno un desiderio comune: si chiama riscatto. Fuggono dalle guerre e dalla povertà  per provare a cercare una  vita migliore, studiando o  lavorando.Se  gestita nella maniera corretta, questa può essere  la  nostra vera  grande occasione per  fare un passo in avanti nello sviluppo di  una  società davvero multiculturale. Ma bisogna passare all’azione. Siamo bravi a riempirci la bocca di belle parole  di fronte alle stragi  che quotidianamente bagnano il Mediterraneo  (e non  solo) di sangue, ma non siamo ancora capaci di impegnarci  seriamente nella risoluzione del problema. Il primo passo  verso il cambiamento è culturale, partendo dall’isolamento di comportamenti razzisti e pericolosi, purtroppo ormai sempre più diffusi. Le risorse ci sono, sta a noi iniziare a cambiare davvero.