Più di centomila in un mese. Arrivano, spesso dopo un viaggio che è significato morte per alcuni compagni, carichi di speranza per un futuro migliore. Il flusso migratorio proveniente principalmente da Africa settentrionale, Medio Oriente e Asia verso l’Europa non sembra attenuarsi. Secondo gli ultimi dati Frontex, l’Agenzia europea per i flussi migratori, nei soli primi sette mesi del 2015 il numero di ingressi registrati è di 340.000, contro i 280.000 dell’intero 2014. Come reagisce l’Europa a questa emergenza? Certo i piani ci sono, ma allora perché sembrano non funzionare? Cosa impedisce a questa enorme macchina d’accoglienza di operare nel migliore dei modi?
Le quote-Paese
Il 27 maggio 2015 il commissario agli affari interni e all’immigrazione Dimitris Avramopoulos ha presentato i dettagli del Piano europeo secondo cui 40.000 migranti che necessitano di protezione internazionale dovevano essere ricollocati dall’Italia e dalla Grecia – Paesi maggiormente interessatii dai flussi migratori – in altri Stati Ue. Vengono esclusi dalle quote di assegnazione Irlanda, Danimarca e Regno Unito che possono scegliere di accettare o rifiutare tali suddivisioni. In realtà nei mesi successivi il Piano non è stato accolto positivamente da tutti i Paesi dell’Unione, e soltanto il 14 settembre si è arrivati all’accordo definitivo, non senza polemiche. Paesi come Slovacchia, Polonia, Repubblica Ceca e Ungheria sono contrari di base e continuano a dichiararsi poco disponibili all’accoglienza. D’altra parte, anche Germania e Francia che inizialmente avevano dato maggiore disponibilità hanno annunciato che riprenderanno i controlli alle frontiere. Proprio in questi giorni il presidente della Commissione europea Juncker ha parlato di 120.000 profughi da dividere fra gli Stati comunitari, da aggiumgere ai 40.000, ma un accordo al momento sembra lontano. In base a quali criteri però vengono stabilite le quote di assegnazione per i diversi Paesi? I parametri su cui si basa questo tipo di scelte sono quattro: il Pil, la popolazione, il livello di disoccupazione e i rifugiati già accolti sul territorio nazionale.
Il diritto d’asilo
Naturalmente non tutti i migranti godranno di queste ricollocazioni: solo coloro a cui è stato riconosciuto “un evidente bisogno di protezione internazionale in Europa” potranno beneficiare di questo piano. Al momento, la concessione dello status di rifugiato è differente fra i vari Paesi Ue: si passa dalla Svezia, che accoglie oltre il 70% delle domande, all’Ungheria, che non supera il 10%. Secondo il regolamento di Dublino, inoltre, i richiedenti asilo devono obbligatoriamente presentare domanda nel Paese in cui sono arrivati. La Commissione Europea sta lavorando in questi giorni proprio al superamento delle norme di Dublino e alla definizione di criteri comuni per la concessione del diritto d’asilo.
La barriera dell’est
Ma per giungere a un accordo è necessaria una condivisione nelle strategie da parte di tutti i Paesi europei. Cosa non facile, se pensiamo ai governi conservatori che si sono insediati da poco in alcuni Stati. A maggio 2015, ad esempio, in Polonia si sono svolte le elezioni presidenziali, che hanno visto vincitore con il 53% dei voti l’ultranazionalista conservatore Andrzej Duda. La vittoria di un personaggio proveniente da un mondo conservatore e così nazionalista rappresenta un pericolo reale per l’Unione europea, perché contribuisce a un parziale isolamento di uno Stato membro e a varie tensioni per la gestione di questioni di politica estera, come appunto l’emergenza migranti. Ed esemplare è il rifiuto da parte del governo polacco di accogliere tutti i migranti che la Commissione europea aveva previsto. Appare evidente che la paura del cambiamento e del diverso prendono il sopravvento sulla ragione e, in queste condizioni, la gestione di un’emergenza simile risulta essere ancora più complessa. Uno degli avvenimenti che nelle ultime settimane ha scosso (ma evidentemente non a sufficienza) tutta l’Europa è stata la decisione del primo ministro ungherese Viktor Orbàn di costruire un muro rinforzato con il filo spinato lungo 175 chilometri che, una volta finito, verrà presidiato dall’esercito.Dove? Naturalmente lungo il confine con la Serbia, in modo tale che i disperati provenienti dall’Asia e dal Medio Oriente che prediligono la via dei Balcani per giungere in Europa non possano arrivare in Ungheria. Dati alla mano, è più che evidente che la percentuale di migranti che decide di fermarsi sul territorio governato da Orbàn è minima rispetto a quelli che optano per altre mete, ma l’atteggiamento di totale chiusura rischia di diventare una polveriera, con i tantissimi migranti che riescono a passare lo stesso e a transitare sul suolo ungherese.
La strumentalizzazione dell’emergenza
Guardando la nostra Italia, che insieme alla Grecia si è accollata finora il peso più grande, non sono mancate voci di dissenso. Prima delle elezioni regionali di maggio scorso, alcuni schieramenti politici hanno incentrato le proprie campagne elettorali sul “problema immigrazione”, intercettando il malcontento e il malessere della popolazione, come se i due aspetti fossero automaticamente collegati. La conseguenza è lo sviluppo di un odio infondato nei confronti dei profughi che continua ad alimentare una spirale pericolosa e distruttiva basata sulla paura del “diverso”. Colpisce che tali posizioni trovino il favore delle generazioni più giovani, normalmente più “progressiste” delle altre: il pericolo è che atteggiamenti qualunquisti influenzino l’opinione pubblica, attribuendo a problemi del tutto interni cause esterne, e proponendo soluzioni sbagliate o inefficaci.
Da problema a risorsa
Alla luce di queste vicende, appare chiaro che oltre alle questioni di tipo economico e organizzativo vi siano problematiche assai più complesse da risolvere a livello culturale e sociale.È innegabile che stiamo assistendo ad uno dei più grandi flussi migratori della storia recente e che la gestione di un fenomeno simile non può essere che difficoltosa, ma forse sarebbe utile cambiare prospettiva. Migliaia di uomini e donne sbarcano o giungono via terra sui territori europei e qualsiasi sia il loro Paese di origine hanno un desiderio comune: si chiama riscatto. Fuggono dalle guerre e dalla povertà per provare a cercare una vita migliore, studiando o lavorando.Se gestita nella maniera corretta, questa può essere la nostra vera grande occasione per fare un passo in avanti nello sviluppo di una società davvero multiculturale. Ma bisogna passare all’azione. Siamo bravi a riempirci la bocca di belle parole di fronte alle stragi che quotidianamente bagnano il Mediterraneo (e non solo) di sangue, ma non siamo ancora capaci di impegnarci seriamente nella risoluzione del problema. Il primo passo verso il cambiamento è culturale, partendo dall’isolamento di comportamenti razzisti e pericolosi, purtroppo ormai sempre più diffusi. Le risorse ci sono, sta a noi iniziare a cambiare davvero.