Reportage. Viaggio al cuore della Lega
Cordoglio padano
I recenti scandali che hanno colpito il Senatur e famiglia pregiudicano la fiducia in un partito che ha fatto della lotta alle ruberie di palazzo la sua bandiera. Ma c’è chi rimane fedele
Matteo Franzese | 4 maggio 2012
Tira una brutta aria a Gemonio. Il cielo è nero e minaccia tuoni e fulmini, quasi a rispecchiare gli stati d’animo degli abitanti. Il piccolo paese, qualche chilometro a nord di Varese, è balzato agli onori della cronaca a seguito dello scandalo nel quale la Lega Nord - e con lei la famiglia del suo demiurgo Umberto Bossi- è piombata a partire dai primi di aprile. È qui la famosa villa in cui vive il Senatùr, quella che sarebbe stata ristrutturata - naturalmente a sua insaputa! - con fondi pubblici. E proprio qui abbiamo deciso di andare, per capire quanto i diamanti, il cerchio magico, i vizi del Trota indignino chi da decenni ha votato al grido di “Roma Ladrona”. Oggi, i ladroni, sembrano essere in casa, 700 km più a Nord della Capitale. A Gemonio, si dice, tutti sono leghisti, è la roccaforte per eccellenza del Carroccio: dal 2005 c’è lo stesso sindaco, Fabio Felli, votato sempre con larga maggioranza.
Il paese però oggi pare deserto, e gli sporadici incontri che si fanno restituiscono sguardi inequivocabili a chi arriva da fuori: nessun “forestiero” è gradito, peggio ancora se ha delle domande da fare.
Le strade strette, quasi claustrofobiche sulle quali si arrampica la piccola cittadina sembrano portare in un solo punto: la sede della Lega nord, a pochi metri dall’abitazione dei Bossi.
Manifesti secessionisti tappezzano per intero i vetri che danno sulla strada e un grosso sole delle Alpi intagliato sovrasta la porta di ingresso. Le saracinesche, però, sono abbassate e nessuno risponde al citofono: ci aspettavamo di trovare una situazione completamente diversa.
Incuriositi ci spostiamo verso un vicino bar, che sembra quasi raccogliere l’intera popolazione del piccolo paese, per chiedere qualche informazione in più. Superati altri sguardi diffidenti iniziamo a parlare con la barista. Sembra ben disposta, così dopo qualche minuto le rivolgiamo la domanda fatidica: “come mai la sede della Lega è chiusa?”.
Silenzio tombale. D’improvviso tutti gli occhi del bar si rivolgono su di noi; il tono della barista si fa schivo e sbrigativo: «non so nulla e non conosco nessuno che possa aiutarvi». Stiamo per uscire dal locale, quando un anziano signore si alza dalla sedia e ci viene incontro: «Se volete fare qualche domanda - dice - dovete scendere verso il centro sportivo, troverete sicuramente qualcuno». Le altre persone non sembrano gradire e lo fanno chiaramente capire con gesti, sbuffi e colorite espressioni in dialetto: non ce lo facciamo ripetere due volte e ci avviamo verso il centro sportivo. È appena finita una partita di calcio e molti ragazzi, borsone in spalla, stanno ritornando a casa: anche qui, però, nessuno sembra aver molta voglia di parlare. Indignazione? Rabbia? O piuttosto omertà?
Riusciamo a fermare due ragazzi ed una ragazza, insieme ad una donna che sembra essere la madre dei tre.
Sono di Gemonio, dicono, e come introduciamo il discorso sui recenti scandali della Lega, la donna si trasforma in un fiume in piena: «Per me è tutto uno schifo, io guadagno mille euro al mese e non so come pagare le spese, e nel frattempo sono costretta a vedere personaggi discutibili prenderne molti di più, solo per blaterare falsità. Da Umberto Bossi non mi aspettavo un simile comportamento, e anche se lui dice di non aver mai saputo nulla a proposito degli affari del figlio Renzo, penso che l’abbia fatto per salvare la faccia: in realtà sapeva benissimo cosa succedeva».
A questo punto qualche fedelissimo della Lega si sente in dovere di controbattere e si avvicina a noi. «La Lega è stata l’unica dimostrazione, in Italia, di come in casi come questi non si debba guardare in faccia nessuno: giustizia è stata fatta, ed in brevissimo tempo. Chi doveva pagare, ha pagato». E il Senatùr? «Lui è solamente una vittima».
Prima di ripartire alla volta di Milano, riusciamo a fermare una donna sulla cinquantina: «Qui a Gemonio, la Lega ha ancora una considerazione altissima e nessuno si sognerebbe mai di condannarne il suo Vate. Anzi, la lasciando il timone del partito dopo più di vent’anni ha accresciuto ancora di più il suo consenso». Mi guarda sconsolata e si esprime in un commento lapidario : «De gustibus…».
Noto con sorpresa uno striscione: a quanto pare a Gemonio si è organizzata una festa per il giorno della liberazione, il 25 aprile. «Qui? Ma non eravate tutti secessionisti?», chiedo. La signora mi guarda e dice: «Se ne vedranno delle belle, infatti!».
Il paese però oggi pare deserto, e gli sporadici incontri che si fanno restituiscono sguardi inequivocabili a chi arriva da fuori: nessun “forestiero” è gradito, peggio ancora se ha delle domande da fare.
Le strade strette, quasi claustrofobiche sulle quali si arrampica la piccola cittadina sembrano portare in un solo punto: la sede della Lega nord, a pochi metri dall’abitazione dei Bossi.
Manifesti secessionisti tappezzano per intero i vetri che danno sulla strada e un grosso sole delle Alpi intagliato sovrasta la porta di ingresso. Le saracinesche, però, sono abbassate e nessuno risponde al citofono: ci aspettavamo di trovare una situazione completamente diversa.
Incuriositi ci spostiamo verso un vicino bar, che sembra quasi raccogliere l’intera popolazione del piccolo paese, per chiedere qualche informazione in più. Superati altri sguardi diffidenti iniziamo a parlare con la barista. Sembra ben disposta, così dopo qualche minuto le rivolgiamo la domanda fatidica: “come mai la sede della Lega è chiusa?”.
Silenzio tombale. D’improvviso tutti gli occhi del bar si rivolgono su di noi; il tono della barista si fa schivo e sbrigativo: «non so nulla e non conosco nessuno che possa aiutarvi». Stiamo per uscire dal locale, quando un anziano signore si alza dalla sedia e ci viene incontro: «Se volete fare qualche domanda - dice - dovete scendere verso il centro sportivo, troverete sicuramente qualcuno». Le altre persone non sembrano gradire e lo fanno chiaramente capire con gesti, sbuffi e colorite espressioni in dialetto: non ce lo facciamo ripetere due volte e ci avviamo verso il centro sportivo. È appena finita una partita di calcio e molti ragazzi, borsone in spalla, stanno ritornando a casa: anche qui, però, nessuno sembra aver molta voglia di parlare. Indignazione? Rabbia? O piuttosto omertà?
Riusciamo a fermare due ragazzi ed una ragazza, insieme ad una donna che sembra essere la madre dei tre.
Sono di Gemonio, dicono, e come introduciamo il discorso sui recenti scandali della Lega, la donna si trasforma in un fiume in piena: «Per me è tutto uno schifo, io guadagno mille euro al mese e non so come pagare le spese, e nel frattempo sono costretta a vedere personaggi discutibili prenderne molti di più, solo per blaterare falsità. Da Umberto Bossi non mi aspettavo un simile comportamento, e anche se lui dice di non aver mai saputo nulla a proposito degli affari del figlio Renzo, penso che l’abbia fatto per salvare la faccia: in realtà sapeva benissimo cosa succedeva».
A questo punto qualche fedelissimo della Lega si sente in dovere di controbattere e si avvicina a noi. «La Lega è stata l’unica dimostrazione, in Italia, di come in casi come questi non si debba guardare in faccia nessuno: giustizia è stata fatta, ed in brevissimo tempo. Chi doveva pagare, ha pagato». E il Senatùr? «Lui è solamente una vittima».
Prima di ripartire alla volta di Milano, riusciamo a fermare una donna sulla cinquantina: «Qui a Gemonio, la Lega ha ancora una considerazione altissima e nessuno si sognerebbe mai di condannarne il suo Vate. Anzi, la lasciando il timone del partito dopo più di vent’anni ha accresciuto ancora di più il suo consenso». Mi guarda sconsolata e si esprime in un commento lapidario : «De gustibus…».
Noto con sorpresa uno striscione: a quanto pare a Gemonio si è organizzata una festa per il giorno della liberazione, il 25 aprile. «Qui? Ma non eravate tutti secessionisti?», chiedo. La signora mi guarda e dice: «Se ne vedranno delle belle, infatti!».