Rifiuti pericolosi. Le discariche della vergogna
... ma a pagare sono loro
Al plasma, Lcd, a schermo piatto. Dalle nostre case ai sobborghi dei Paesi in via di sviluppo dove l’ “ultima generazione” dei rifiuti minaccia l’ambiente e la popolazione
Elena Dardano | 2 febbraio 2012
La tecnologia è ormai diventata indispensabile per noi e con la stessa velocità con cui acquistiamo l’ultimo gioiellino high tech, ci disfiamo dell’ormai obsoleto predecessore. Ma sappiamo dove molto spesso i nostri pc ormai “vecchi”, i televisori, i cellulari rotti a volte dalla nostra disattenzione o buttati perché semplicemente non ci piacciono più vanno a finire? Greenpeace ha risposto per prima a questa domanda: tonnellate di RAEE - rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche - da noi prodotte vengono esportate e smaltite in immense discariche nei Paesi in via di sviluppo, che diventano così le pattumiere del mondo civilizzato, se a questo punto così si può chiamare.
L’associazione ambientalista ha condotto in Ghana analisi sull’acqua e su altri sedimenti di alcune aree chiamate di “riciclo improprio”, rinvenendo alte concentrazioni di metalli pesanti e diossine, notoriamente cancerogene per l’uomo, che si producono a seguito della combustione di alcuni prodotti plastici a base di cloro. Gran parte di questi rifiuti viene infatti data alle fiamme anche per poterne isolare alluminio, rame o oro che poi vengono rivenduti. Ne nasce così un secondo mercato: “La gente nelle discariche – ci spiega Vittoria Polidori, responsabile della campagna Inquinamento di Greenpeace – lavora per pochi dollari. Viene sfruttata per avere un piccolo vantaggio economico. Chi esporta questi rifiuti invece contribuisce alla perdita di risorse preziose, che potrebbero essere utilizzate in miglior modo, e ovviamente alla contaminazione di un ambiente già fortemente aggravato”.
Le scorie elettroniche sono altamente nocive per il territorio e soprattutto per le vie respiratorie delle persone che lavorano in queste discariche. Dentro un tubo catodico, ad esempio, si possono trovare piombo, pericoloso tra l’altro per l’apparato riproduttivo, e cadmio, che provoca danni ai reni, o ancora mercurio che può compromettere le funzioni cerebrali.
Tommaso Galli in una di queste discariche c’è stato: è andato da Agbogbloshie, sobborgo di Accra, in Ghana, per documentare con la sua fotocamera le condizioni in cui vivono le persone asserragliate in mezzo a quel maleodorante e malsano agglomerato dei nostri più sofisticati rifiuti. «Sono partito con un profondo senso di colpa per quello che avrei visto – ci ha raccontato – e sono tornato con un profondo senso di colpa per quello che ho visto. La discarica in realtà è una città, attraversata da un fiume che ribolle e trabocca di computer, televisori, acidi. Il posto è chiamato Sodoma e Gomorra. Ci sono case, una moschea, il mercato, bambini che passano con le divise della scuola, c’è il bestiame, puoi avvistare persino gli aironi bianchi. È come un villaggio africano all’interno della capitale. C’è anche un campo di calcio, circondato da computer e fumi di apparecchi bruciati; si gioca in mezzo al mercurio, al cadmio. Vivono lì dentro, armati: non se ne vogliono andare, perché considerano il lavorare nella discarica come una grande fortuna. Io stesso non sarei potuto entrare se non fossi stato accompagnato da due funzionari del governo. Alla base del villaggio una gigantesca trivella pressa tutto il materiale: ne esce un liquame viola che finisce nel golfo di Guinea, frequentato, tra l’altro, da numerosi pescherecci cinesi, giapponesi ed europei, con le conseguenze che potete immaginare». Il suo reportage fotografico oggi è parte integrante del progetto iGarbage, creato dall’associazione Elisso per sensibilizzare la popolazione – scolastica soprattutto –sulla problematica dello smaltimento dei RAEE, «ma anche sul rapporto che abbiamo noi occidentali con le nuove tecnologie: ho fotografato bambini che a tre anni se ne stanno per conto loro a giocare nei parchi con piccoli computer sulle ginocchia». Piccoli techno consumatori crescono e iniziano precocemente a produrre rifiuti high tech.
La questione è: come può accadere tutto questo? «Esiste una convenzione internazionale – chiarisce Polidori – che vieta l’esportazione di questi rifiuti pericolosi, ma la legge viene aggirata attraverso l’escamotage del “bene di seconda mano”: la merce viaggia come un prodotto da riutilizzare quando in realtà si tratta di rifiuti da smaltire». Traffici illeciti a parte, le responsabilità sono diverse, il fenomeno è piuttosto complesso. «Sicuramente – continua Polidori – dovrebbero esserci controlli maggiori del rispetto della legge. La nostra impone un ciclo virtuoso che non sempre si realizza. Oggi esistono tre vie per disfarsi di un elettrodomestico: portarlo in un centro di raccolta, chiamare il Comune laddove questo offra il servizio, oppure, al momento di acquistare un nuovo prodotto, portare il vecchio apparecchio al negoziante in base al famoso decreto “Uno contro uno”. Il problema è che questo è stato adottato con molto ritardo in Italia e ancora oggi non è sempre rispettato, mentre i centri di raccolta sono pochi, mal posizionati e mal gestiti. Poi, ancora prima, ci sono ovviamente le responsabilità dei produttori che dovrebbero limitare l’uso delle sostanze pericolose». E noi giovani, che siamo “schiavi” dell’ultimo modello di cellulare, dell’ultimo gioco da inserire nella Wii, cosa possiamo fare? Intanto, al momento dell’acquisto, si possono privilegiare le società “virtuose”: sempre Greenpeace, ad esempio, ha pubblicato un’Eco-guida dove vengono classificate le aziende elettroniche in base a tre parametri: politica energetica, eco-compatibilità dei prodotti, sostenibilità della filiera. Poi, «naturalmente – conclude Polidori – fare raccolta differenziata e, prima ancora, valutare se sia davvero necessario comprare un nuovo prodotto o sia sufficiente migliorarne le performance comprando una parte di esso». Siete ancora sicuri di avere assolutamente bisogno di un nuovo telefono?
L’associazione ambientalista ha condotto in Ghana analisi sull’acqua e su altri sedimenti di alcune aree chiamate di “riciclo improprio”, rinvenendo alte concentrazioni di metalli pesanti e diossine, notoriamente cancerogene per l’uomo, che si producono a seguito della combustione di alcuni prodotti plastici a base di cloro. Gran parte di questi rifiuti viene infatti data alle fiamme anche per poterne isolare alluminio, rame o oro che poi vengono rivenduti. Ne nasce così un secondo mercato: “La gente nelle discariche – ci spiega Vittoria Polidori, responsabile della campagna Inquinamento di Greenpeace – lavora per pochi dollari. Viene sfruttata per avere un piccolo vantaggio economico. Chi esporta questi rifiuti invece contribuisce alla perdita di risorse preziose, che potrebbero essere utilizzate in miglior modo, e ovviamente alla contaminazione di un ambiente già fortemente aggravato”.
Le scorie elettroniche sono altamente nocive per il territorio e soprattutto per le vie respiratorie delle persone che lavorano in queste discariche. Dentro un tubo catodico, ad esempio, si possono trovare piombo, pericoloso tra l’altro per l’apparato riproduttivo, e cadmio, che provoca danni ai reni, o ancora mercurio che può compromettere le funzioni cerebrali.
Tommaso Galli in una di queste discariche c’è stato: è andato da Agbogbloshie, sobborgo di Accra, in Ghana, per documentare con la sua fotocamera le condizioni in cui vivono le persone asserragliate in mezzo a quel maleodorante e malsano agglomerato dei nostri più sofisticati rifiuti. «Sono partito con un profondo senso di colpa per quello che avrei visto – ci ha raccontato – e sono tornato con un profondo senso di colpa per quello che ho visto. La discarica in realtà è una città, attraversata da un fiume che ribolle e trabocca di computer, televisori, acidi. Il posto è chiamato Sodoma e Gomorra. Ci sono case, una moschea, il mercato, bambini che passano con le divise della scuola, c’è il bestiame, puoi avvistare persino gli aironi bianchi. È come un villaggio africano all’interno della capitale. C’è anche un campo di calcio, circondato da computer e fumi di apparecchi bruciati; si gioca in mezzo al mercurio, al cadmio. Vivono lì dentro, armati: non se ne vogliono andare, perché considerano il lavorare nella discarica come una grande fortuna. Io stesso non sarei potuto entrare se non fossi stato accompagnato da due funzionari del governo. Alla base del villaggio una gigantesca trivella pressa tutto il materiale: ne esce un liquame viola che finisce nel golfo di Guinea, frequentato, tra l’altro, da numerosi pescherecci cinesi, giapponesi ed europei, con le conseguenze che potete immaginare». Il suo reportage fotografico oggi è parte integrante del progetto iGarbage, creato dall’associazione Elisso per sensibilizzare la popolazione – scolastica soprattutto –sulla problematica dello smaltimento dei RAEE, «ma anche sul rapporto che abbiamo noi occidentali con le nuove tecnologie: ho fotografato bambini che a tre anni se ne stanno per conto loro a giocare nei parchi con piccoli computer sulle ginocchia». Piccoli techno consumatori crescono e iniziano precocemente a produrre rifiuti high tech.
La questione è: come può accadere tutto questo? «Esiste una convenzione internazionale – chiarisce Polidori – che vieta l’esportazione di questi rifiuti pericolosi, ma la legge viene aggirata attraverso l’escamotage del “bene di seconda mano”: la merce viaggia come un prodotto da riutilizzare quando in realtà si tratta di rifiuti da smaltire». Traffici illeciti a parte, le responsabilità sono diverse, il fenomeno è piuttosto complesso. «Sicuramente – continua Polidori – dovrebbero esserci controlli maggiori del rispetto della legge. La nostra impone un ciclo virtuoso che non sempre si realizza. Oggi esistono tre vie per disfarsi di un elettrodomestico: portarlo in un centro di raccolta, chiamare il Comune laddove questo offra il servizio, oppure, al momento di acquistare un nuovo prodotto, portare il vecchio apparecchio al negoziante in base al famoso decreto “Uno contro uno”. Il problema è che questo è stato adottato con molto ritardo in Italia e ancora oggi non è sempre rispettato, mentre i centri di raccolta sono pochi, mal posizionati e mal gestiti. Poi, ancora prima, ci sono ovviamente le responsabilità dei produttori che dovrebbero limitare l’uso delle sostanze pericolose». E noi giovani, che siamo “schiavi” dell’ultimo modello di cellulare, dell’ultimo gioco da inserire nella Wii, cosa possiamo fare? Intanto, al momento dell’acquisto, si possono privilegiare le società “virtuose”: sempre Greenpeace, ad esempio, ha pubblicato un’Eco-guida dove vengono classificate le aziende elettroniche in base a tre parametri: politica energetica, eco-compatibilità dei prodotti, sostenibilità della filiera. Poi, «naturalmente – conclude Polidori – fare raccolta differenziata e, prima ancora, valutare se sia davvero necessario comprare un nuovo prodotto o sia sufficiente migliorarne le performance comprando una parte di esso». Siete ancora sicuri di avere assolutamente bisogno di un nuovo telefono?