Coltan “insanguinato”. La guerra dietro la tecnologia
High tech: noi compriamo…
Dalle miniere del Congo si estraggono minerali come il coltan indispensabili per i nostri apparecchi elettronici. Per il controllo di queste risorse sono tuttora in corso sanguinosi conflitti che rappresentano il vero, drammatico costo del nostro high tec
Eleonora Cosmelli | 2 febbraio 2012
Vi siete mai chiesti da dove arrivino i cellulari prima di fare sfoggio di sé sugli scaffali di negozi e supermercati? Questi, come i computer e gran parte dei prodotti tecnologici, funzionano anche grazie all’impiego del coltan, una lega di columbite e tantalite che ha l’apparenza di una sabbia nera. In particolare serve ad ottimizzare il consumo della corrente elettrica nei chip di nuovissima generazione. Il minerale in questione non è però così facile da trovare: l’ottanta per cento delle riserve mondiali si trova in Africa e l’ottanta per cento di queste in Congo (Repubblica Democratica del Congo), precisamente nella regione del Kivu, nel nord-est. Quest’area possiede anche molte miniere d’oro: se il mondo fosse semplice, la sua popolazione potrebbe usufruire delle proprie risorse in modo equilibrato e ricavarne adeguato profitto; il Congo è invece un Paese molto povero e le sue ricchezze sono sfruttate da gruppi di stranieri.
Non è facile nemmeno trovare informazioni sull’argomento. Giuseppe Carrisi, un giornalista di Rai International che conosce da vicino l’area centroafricana e collabora a progetti di recupero di bambini soldato, racconta: «Essendo i prodotti che utilizzano minerali come il coltan distribuiti su scala mondiale, sono molte le multinazionali coinvolte».
Il traffico del coltan è gestito, ovviamente in modo illegale, da gruppi di ribelli e signori della guerra, che dirigono un gigantesco traffico d’armi e controllano questi territori con la violenza. I ribelli hanno tutto l’interesse a mantenere la situazione così com’è: il traffico del coltan frutta quanto quello dell’oro, se non di più; dall’altra parte c’è invece una popolazione locale che non solo non trae alcun vantaggio da questo “commercio”, ma ne è a tutti gli effetti sopraffatta. Il profitto, su scala mondiale, sembra essere la priorità assoluta per tutti, dai signori della guerra del sud del mondo alle aziende occidentali. «La “corsa al coltan” negli anni ‘90 è degenerata in una guerra che ha coinvolto parte dell’esercito congolese, ribelli ruandesi e gruppi armati non meglio identificati, provocando 5 milioni di vittime tra i civili, un numero imprecisato di profughi interni e l’arruolamento di oltre 30.000 bambini soldato», continua Carrisi.
«La guerra in Congo sarebbe ufficialmente finita – ci spiega Donata Lodi, responsabile delle Relazioni Internazionali e Advocacy nazionale di Unicef Italia – ma soprattutto nell’est del Paese permane un conflitto a bassa intensità con scontri ricorrenti: le bande armate continuano a presidiare le risorse e nessuno sa bene chi le controlla. Spesso i bambini scappano da queste zone e cercano di arrivare a Kinshasa dove vivono per le strade. Altri vengono arruolati dai gruppi armati».
Incalcolabili anche le conseguenze ambientali di un così intenso sfruttamento del territorio: si va dall’abbattimento degli alberi all’impoverimento del territorio in generale. Un’erosione del sistema natura che avrà, in un futuro prossimo, gravi ripercussioni per tutti. «Per estrarre il coltan - continua Lodi - si distrugge lo strato fertile del terreno, si elimina praticamente il primo metro di terra; questo significa che quando qualcuno convince i capifamiglia a cercare il coltan anche nel loro terreno, molte famiglie finiscono in miseria perché i loro appezzamenti vengono distrutti e magari il prezioso minerale non lo trovano neanche». Poi c’è il problema del contrabbando. «Soprattutto fino ad un paio di anni fa si vedevano continuamente aerei bianchi, senza alcuna insegna, partire carichi di minerali e arrivare carichi di armi».
Di questo argomento in realtà non si parla più molto. Forse perché la situazione oggi è migliorata? La comunità internazionale finalmente ha posto fine in qualche modo a tutto questo? In effetti, proprio lo scorso anno l’amministrazione Obama ha emanato il Dodd Frank Act – la riforma finanziaria – con cui sono stati introdotti per le imprese americane nuovi obblighi di trasparenza. Le società i cui prodotti contengono cassiterite (minerale di stagno), coltan, wolframite e oro devono comunicare alla Sec, l’organo di controllo di Wall Street, che i minerali usati non provengono da zone di conflitto, in particolare dalla Repubblica democratica del Congo.
«L’iniziativa è ottima – precisa Lodi – ma non credo risolva il problema. Se si analizzano le statistiche, si scopre un volume enorme di esportazioni di minerali rari da Paesi come Uganda e Ruanda che non si spiega con le loro scarse risorse minerarie: in realtà i trafficanti provano (e riescono) a valicare i confini, i minerali viaggiano dentro le borse delle persone, trasportati nei Paesi che non hanno conflitti in corso». Padre Loris Cattani, missionario membro di Rete pace per il Congo che nel Paese ha vissuto, concorda: «L’intenzione dell’amministrazione Obama era buona, tant’è che dopo il provvedimento molte società minerarie si sono ritirate, ma il commercio non si è fermato, è proseguito a livello clandestino. Il problema grosso è la difficoltà di smantellare una rete mafiosa cui concorrono gruppi militari e politici congolesi. Il primo controllo va fatto intanto nei punti di raccolta del prodotto grezzo all’interno del Paese e poi anche lungo il trasporto: può accadere ad esempio che il minerale esca “pulito”, ma che nel tragitto venga sottoposto a tasse illegali imposte da gruppi armati». Poi c’è il problema dei semilavorati. A comprare il coltan congolese attualmente sono soprattutto aziende di componentistica elettronica e di batterie per cellulari, in gran parte ditte cinesi. «Sull’elettronica – conclude Lodi – è difficilissimo acquistare prodotti con la sicurezza che non vengano da quei posti, anche perché non si riesce a controllare il giro che fanno i materiali semilavorati: l’unica garanzia è esercitare il controllo da parte della comunità internazionale su queste aree di conflitto, coinvolgendo anche Paesi come la Cina, l’India e la Russia». Insomma, il Congo resta «un supermercato a cielo aperto», come lo ha definito Carrisi, «da cui però non si passa alla cassa per pagare».
Con l’iPhone non si scherza!
Il gioco “Phone story” non è piaciuto alla Apple che lo ha bandito dai suoi punti di distribuzione. Si tratta di un’applicazione creata dall’italiana Molleindustria, una simulazione di gioco che denuncia come nascerebbero i telefonini: mostra l’utilizzo di minori per le estrazioni di materie prime in Africa, le drammatiche condizioni dei lavoratori cinesi nelle fabbriche d’assemblaggio, lo smaltimento di rifiuti high tech. Gli sviluppatori sostengono che il gioco dovrebbe suscitare una riflessione critica, ma la Apple ha motivato il suo divieto spiegando che l’app di Molleindustria avrebbe violato alcuni Termini d’Uso dello store, proponendo tra l’altro contenuti “violenti e crudeli”.
Non è facile nemmeno trovare informazioni sull’argomento. Giuseppe Carrisi, un giornalista di Rai International che conosce da vicino l’area centroafricana e collabora a progetti di recupero di bambini soldato, racconta: «Essendo i prodotti che utilizzano minerali come il coltan distribuiti su scala mondiale, sono molte le multinazionali coinvolte».
Il traffico del coltan è gestito, ovviamente in modo illegale, da gruppi di ribelli e signori della guerra, che dirigono un gigantesco traffico d’armi e controllano questi territori con la violenza. I ribelli hanno tutto l’interesse a mantenere la situazione così com’è: il traffico del coltan frutta quanto quello dell’oro, se non di più; dall’altra parte c’è invece una popolazione locale che non solo non trae alcun vantaggio da questo “commercio”, ma ne è a tutti gli effetti sopraffatta. Il profitto, su scala mondiale, sembra essere la priorità assoluta per tutti, dai signori della guerra del sud del mondo alle aziende occidentali. «La “corsa al coltan” negli anni ‘90 è degenerata in una guerra che ha coinvolto parte dell’esercito congolese, ribelli ruandesi e gruppi armati non meglio identificati, provocando 5 milioni di vittime tra i civili, un numero imprecisato di profughi interni e l’arruolamento di oltre 30.000 bambini soldato», continua Carrisi.
«La guerra in Congo sarebbe ufficialmente finita – ci spiega Donata Lodi, responsabile delle Relazioni Internazionali e Advocacy nazionale di Unicef Italia – ma soprattutto nell’est del Paese permane un conflitto a bassa intensità con scontri ricorrenti: le bande armate continuano a presidiare le risorse e nessuno sa bene chi le controlla. Spesso i bambini scappano da queste zone e cercano di arrivare a Kinshasa dove vivono per le strade. Altri vengono arruolati dai gruppi armati».
Incalcolabili anche le conseguenze ambientali di un così intenso sfruttamento del territorio: si va dall’abbattimento degli alberi all’impoverimento del territorio in generale. Un’erosione del sistema natura che avrà, in un futuro prossimo, gravi ripercussioni per tutti. «Per estrarre il coltan - continua Lodi - si distrugge lo strato fertile del terreno, si elimina praticamente il primo metro di terra; questo significa che quando qualcuno convince i capifamiglia a cercare il coltan anche nel loro terreno, molte famiglie finiscono in miseria perché i loro appezzamenti vengono distrutti e magari il prezioso minerale non lo trovano neanche». Poi c’è il problema del contrabbando. «Soprattutto fino ad un paio di anni fa si vedevano continuamente aerei bianchi, senza alcuna insegna, partire carichi di minerali e arrivare carichi di armi».
Di questo argomento in realtà non si parla più molto. Forse perché la situazione oggi è migliorata? La comunità internazionale finalmente ha posto fine in qualche modo a tutto questo? In effetti, proprio lo scorso anno l’amministrazione Obama ha emanato il Dodd Frank Act – la riforma finanziaria – con cui sono stati introdotti per le imprese americane nuovi obblighi di trasparenza. Le società i cui prodotti contengono cassiterite (minerale di stagno), coltan, wolframite e oro devono comunicare alla Sec, l’organo di controllo di Wall Street, che i minerali usati non provengono da zone di conflitto, in particolare dalla Repubblica democratica del Congo.
«L’iniziativa è ottima – precisa Lodi – ma non credo risolva il problema. Se si analizzano le statistiche, si scopre un volume enorme di esportazioni di minerali rari da Paesi come Uganda e Ruanda che non si spiega con le loro scarse risorse minerarie: in realtà i trafficanti provano (e riescono) a valicare i confini, i minerali viaggiano dentro le borse delle persone, trasportati nei Paesi che non hanno conflitti in corso». Padre Loris Cattani, missionario membro di Rete pace per il Congo che nel Paese ha vissuto, concorda: «L’intenzione dell’amministrazione Obama era buona, tant’è che dopo il provvedimento molte società minerarie si sono ritirate, ma il commercio non si è fermato, è proseguito a livello clandestino. Il problema grosso è la difficoltà di smantellare una rete mafiosa cui concorrono gruppi militari e politici congolesi. Il primo controllo va fatto intanto nei punti di raccolta del prodotto grezzo all’interno del Paese e poi anche lungo il trasporto: può accadere ad esempio che il minerale esca “pulito”, ma che nel tragitto venga sottoposto a tasse illegali imposte da gruppi armati». Poi c’è il problema dei semilavorati. A comprare il coltan congolese attualmente sono soprattutto aziende di componentistica elettronica e di batterie per cellulari, in gran parte ditte cinesi. «Sull’elettronica – conclude Lodi – è difficilissimo acquistare prodotti con la sicurezza che non vengano da quei posti, anche perché non si riesce a controllare il giro che fanno i materiali semilavorati: l’unica garanzia è esercitare il controllo da parte della comunità internazionale su queste aree di conflitto, coinvolgendo anche Paesi come la Cina, l’India e la Russia». Insomma, il Congo resta «un supermercato a cielo aperto», come lo ha definito Carrisi, «da cui però non si passa alla cassa per pagare».
Con l’iPhone non si scherza!
Il gioco “Phone story” non è piaciuto alla Apple che lo ha bandito dai suoi punti di distribuzione. Si tratta di un’applicazione creata dall’italiana Molleindustria, una simulazione di gioco che denuncia come nascerebbero i telefonini: mostra l’utilizzo di minori per le estrazioni di materie prime in Africa, le drammatiche condizioni dei lavoratori cinesi nelle fabbriche d’assemblaggio, lo smaltimento di rifiuti high tech. Gli sviluppatori sostengono che il gioco dovrebbe suscitare una riflessione critica, ma la Apple ha motivato il suo divieto spiegando che l’app di Molleindustria avrebbe violato alcuni Termini d’Uso dello store, proponendo tra l’altro contenuti “violenti e crudeli”.