Solidarietà. Il racconto dei nostri reporter
I cavalieri che fecero l’impresa
Hanno vent’anni e anche meno, ma di fronte al bisogno di una città ferita dalla terribile alluvione non si sono tirati indietro. L’impegno e le emozioni di chi nel fango c’è stato e ne è uscito pulito
Dario Carere, 21 anni | 2 dicembre 2011
Assecondo volentieri la proposta di raccontare qualcosa della mia esperienza di “infangato”; benché solo per un giorno abbia potuto dedicare il mio servizio volontario, per il quale ho sacrificato volentieri qualche vecchio indumento e un paio di guanti. Il giovane entusiasmo genovese di cui ho fatto parte mi resterà senza dubbio nel cuore, sia per il piccolo grande aiuto che ho offerto presso la sventurata via Fereggiano, sia per l’occasione così preziosa di offrire solidarietà.
Non sono nato qui; ma non devo tutto a questa città? Non mi chiedo se sia opportuno andare o no, vado e basta. Vado ad aiutare solo, ho deciso così. Cammino a lungo a fianco del Bisagno; è così tranquillo adesso, con i suoi isolotti squallidi, la sua vegetazione copiosa e triste. Tuttavia, talvolta, incontro delle grandi macchie di fango sulla strada, oppure, più vicino alle pareti grigie che avrebbero dovuto contenere la corrente, un motorino ridotto ormai ad un relitto. Cerco ovunque: Staglieno, Marassi... ma il peggio sembra già passato. Ecco che mi imbatto in due altri cavalieri di ventura: forse senza paura, ma senza macchia no di certo. Con le vanghe sotto braccio e i guanti da lavoro, sporchi da cima a piedi, cercano anche loro un’occasione per essere utili. Non bisogna iscriversi da nessuna parte, né far parte di nessun ordine: dove occorre, si può essere presenti. Ed è proprio questo, credo, l’aspetto più bello di questa esperienza: nessuna formalità, nessuna burocrazia, ma un errare per guai, senza mediazioni. E i cavalieri sono stati davvero tanti, se si considera che quando siamo arrivati in via Fereggiano il più, per fortuna, era stato già fatto. Erano passati solo tre giorni dall’alluvione.
Poi quel magazzino completamente allagato dal fango, le macchie d’umidità, gli oggetti da lavare e quelli da gettare, i quintali di cartone ridotto ormai a poltiglia da smaltire in fretta. L’allegria, malgrado tutto, l’essere squadra. “Attento lì, si scivola”. Roba da buttare, tanta quanta mai ne ho vista. Le ruspe, la protezione civile, le pozzanghere, parte della strada ridotta ormai ad una fossa. E soprattutto, i negozi sventrati dalla corrente, l’impegno e il denaro annegati. Non è rimasto che qualche brandello di muro, penso allontanandomi per esplorare la via sino in cima... Dopo realizzo che no, non è il caso: noi ci siamo, il danno si ripara; ma in sei non ci sono più. Forse è più giusto pensare a questo.
Presto ci accorgiamo di essere quasi in troppi, e che tra pochi giorni non avremo più l’opportunità di sentirci così utili, così preziosi.
Poi i saluti, le strette di mano. “Grazie mille; tornate a casa ora”. Io ho 21 anni; in pochi attorno a me hanno finito le scuole superiori. Mi sento vecchio. Poi si prende il treno, si ripensa allo sfacelo, si parla di esami. Ci si sente bene. Ci guardano gli altri, vedono le nostre macchie, il nostro impegno. Le ferite del cavaliere.
Tra i ricordi, soprattutto quella scritta appesa ad una vetrina: “Grazie a tutti”. Ma in realtà dovremmo ringraziare noi infangati, perché quelle macchie ci hanno reso più puliti dentro.
Non sono nato qui; ma non devo tutto a questa città? Non mi chiedo se sia opportuno andare o no, vado e basta. Vado ad aiutare solo, ho deciso così. Cammino a lungo a fianco del Bisagno; è così tranquillo adesso, con i suoi isolotti squallidi, la sua vegetazione copiosa e triste. Tuttavia, talvolta, incontro delle grandi macchie di fango sulla strada, oppure, più vicino alle pareti grigie che avrebbero dovuto contenere la corrente, un motorino ridotto ormai ad un relitto. Cerco ovunque: Staglieno, Marassi... ma il peggio sembra già passato. Ecco che mi imbatto in due altri cavalieri di ventura: forse senza paura, ma senza macchia no di certo. Con le vanghe sotto braccio e i guanti da lavoro, sporchi da cima a piedi, cercano anche loro un’occasione per essere utili. Non bisogna iscriversi da nessuna parte, né far parte di nessun ordine: dove occorre, si può essere presenti. Ed è proprio questo, credo, l’aspetto più bello di questa esperienza: nessuna formalità, nessuna burocrazia, ma un errare per guai, senza mediazioni. E i cavalieri sono stati davvero tanti, se si considera che quando siamo arrivati in via Fereggiano il più, per fortuna, era stato già fatto. Erano passati solo tre giorni dall’alluvione.
Poi quel magazzino completamente allagato dal fango, le macchie d’umidità, gli oggetti da lavare e quelli da gettare, i quintali di cartone ridotto ormai a poltiglia da smaltire in fretta. L’allegria, malgrado tutto, l’essere squadra. “Attento lì, si scivola”. Roba da buttare, tanta quanta mai ne ho vista. Le ruspe, la protezione civile, le pozzanghere, parte della strada ridotta ormai ad una fossa. E soprattutto, i negozi sventrati dalla corrente, l’impegno e il denaro annegati. Non è rimasto che qualche brandello di muro, penso allontanandomi per esplorare la via sino in cima... Dopo realizzo che no, non è il caso: noi ci siamo, il danno si ripara; ma in sei non ci sono più. Forse è più giusto pensare a questo.
Presto ci accorgiamo di essere quasi in troppi, e che tra pochi giorni non avremo più l’opportunità di sentirci così utili, così preziosi.
Poi i saluti, le strette di mano. “Grazie mille; tornate a casa ora”. Io ho 21 anni; in pochi attorno a me hanno finito le scuole superiori. Mi sento vecchio. Poi si prende il treno, si ripensa allo sfacelo, si parla di esami. Ci si sente bene. Ci guardano gli altri, vedono le nostre macchie, il nostro impegno. Le ferite del cavaliere.
Tra i ricordi, soprattutto quella scritta appesa ad una vetrina: “Grazie a tutti”. Ma in realtà dovremmo ringraziare noi infangati, perché quelle macchie ci hanno reso più puliti dentro.