Proteste. Prove generali di democrazia (quella vera)
Altrimenti ci indignamo
Si definiscono il “99%”, quelli che pagano per le decisioni dell’1% della popolazione. Vogliono un’economia più “giusta” e una buona istruzione accessibile a tutti, chiedono di essere ascoltati e contare finalmente di più
Davide Ghio, 19 anni | 7 novembre 2011
Tutte le strade portano a Roma, recita un vecchio adagio; ed è da tutta Italia che sono arrivati nella Capitale i partecipanti alla “manifestazione degli indignati”. Ma chi sono realmente questi indignati? Una domanda difficile, dato che a Roma c’erano proprio tutti: da rappresentanti di partiti come Sel ed i sopravvissuti di Rifondazione ai movimenti dell’antipolitica come il Popolo Viola, fino ad arrivare alle Arci, ai sindacati, le associazioni studentesche, i centri sociali e semplici cittadini venuti perché quel giorno volevano esserci. Si è detto che proprio questa sia stata la debolezza del corteo, la mancanza di coesione, nient’altro che “un’accozzaglia di gruppi”. Eppure questo ginepraio ideologico e sociale venuto da ogni dove ha percorso 4 km di corteo, ha sopportato gli incidenti e soprattutto ha partecipato ad un evento di portata globale, facendo di Roma la piazza più gremita del mondo, solamente perché unito ed animato da un unico, preciso sentimento: l’indignazione. Non quella sterile e stanca che si cantilena al bar, non quella rassegnata e ripetitiva che condisce le lunghe attese negli uffici pubblici, ma quella di un’intera umanità. Un villaggio globale che si ribella ad un modello di società, sempre più lontano dai bisogni e dal sentire comune, a quella faccia del capitalismo chiamata consumismo, dettato dai potenti della finanza e dai capi di governo, vale a dire da quell’1% della popolazione mondiale, a danno del rimanente 99% (“siamo il 99%” è stato proprio uno degli slogan più ricorrenti della manifestazione). Alle nuove generazioni cresciute negli anni ’90 è stato insegnato fin dalle elementari che il consumismo è una cosa da superare, e che i temi da risolvere sono la povertà, la guerra, la fame nel mondo; quelle stesse generazioni hanno visto i potenti della terra inseguire il profitto, l’interesse delle banche, il disprezzo delle problematiche ambientali, e portare guerra e devastazioni in luoghi già tormentati, per ragioni di profitto sempre più evidenti. Nelle proposte dei manifestanti al G8, nelle banlieues parigine, nei riots di Londra, nelle città greche il comune denominatore è stato sempre l’insoddisfazione nei confronti di questo modello di sviluppo che non tiene conto di quelli che sono sentiti da tutti come i veri temi da porre ai primi posti degli ordini del giorno delle riunioni delle alte sfere. Un’insoddisfazione ed un bisogno di reagire e farsi sentire che superano gli interessi regionali, nazionali ed anche continentali, che annullano ogni divisione partitica, che superano anche fenomeni come l’antipolitica o l’antiberlusconismo, che mirano ad un punto di vista molto più allargato nel tempo e nello spazio ed alla messa in discussione di tematiche la cui ignoranza sarebbe intollerabile.
Questa è l’idea, il vero collante dell’“accozzaglia” che ha portato migliaia di studenti, lavoratori e precari a sopportare levatacce ed ore di pullman o di treno per sfilare un pomeriggio sotto il cielo terso dell’Urbe: un’idea talmente sentita e maturata negli anni che ha riempito quasi mille piazze in tutto il mondo, e che degli episodi di violenza potranno al massimo rallentare, ma mai arrestare. Riflettano coloro che dicevano che con la crisi ognuno avrebbe portato l’acqua al suo mulino, perché un referendum ci ha ricordato che l’acqua è di tutti.
Yes, we camp
“Lasciate ogni partito oh voi che entrate”. Recita così lo striscione all’ingresso di piazza Santa croce in Gerusalemme a Roma dove dal 15 ottobre sono accampati alcuni “indignati”. Sono studenti e precari, ma «ci sono anche persone che dormono qui e al mattino si vestono in giacca e cravatta per andare a lavorare», ci spiega Giulia, arrivata a Roma da Venezia. È un gruppo eterogeneo, unito dagli stessi ideali. C’è anche un ragazzo di 18 anni, addetto alla cucina, «ci sfama tutti - continua Giulia – e la sera fa tardi per rimettere a posto». C’è un alcolista che inizialmente non tutti volevano nel gruppo: ora lavora con loro, “si dà da fare e non sta neanche bevendo”, racconta Titty. Lei ha 23 anni, viene da Catanzaro e studia all’Accademia di Belle Arti. Ognuno qui svolge un compito e partecipa alle assemblee che iniziano al mattino e si protraggono fino a tardi. Ognuno condivide opinioni e si confronta. «Qui ci abituiamo all’ascolto dell’altro, parliamo molto e lo spazio-tempo si dilata», spiega Giulia. «La differenza fondamentale tra qui e fuori – interviene Titty - è che qui non puoi liquidare una persona quando non ti va più di ascoltarla, ma devi arrivare al confronto fino a quando non riesci ad accettare anche la sua visione nella tua, arrivando ad averne una più ampia». Mi chiedo e le chiedo: riuscirete a restare senza leader o qualcuno inevitabilmente cercherà di emergere? «Vedi – mi dice - io ora mi occupo dell’archivio e della segreteria del campo. Se fosse tutto nelle mie mani, si creerebbe una dipendenza da me e se mi assentassi, sarebbe un problema. Io non voglio essere un leader e per questo sto cercando di fare in modo che anche altri sappiano gestire quello di cui mi occupo io. Ma dipende un po’ anche dalle persone, perché è facile cascarci». Non mancano i problemi pratici, che però si risolvono con la buona volontà e un po’ di fantasia: piatti e panni si lavano alla fontanella della piazza, con detersivi naturali, naturalmente, c’è una bacheca dove lasciare i messaggi e una biblioteca. Manca l’elettricità, «ma potremmo produrla con le biciclette, no?». C’è anche un angolo adibito a media center. Il rapporto con i giornalisti non è sempre facile, però. «L’altro giorno, ad esempio, è venuta una giornalista di Rai 3 – racconta ancora Titty – voleva farci delle domande interrompendo la nostra assemblea, aveva fretta, voleva imporci i suoi tempi, ma anche questa è violenza». L’intervista è saltata. Il rispetto dell’altro è un valore fondamentale qui al campo, dove gli applausi in assemblea sono sostituiti da uno sfarfallio delle mani per non fare troppo rumore. Sono ben organizzati, gli “acampados” italiani, ma l’aiuto esterno è ben accetto e fortunatamente non manca, c’è perfino un dentista che si è offerto di curarli gratis. «Ci servirebbe qualche materasso – suggerisce Giulia – lo puoi scrivere? Magari qualcuno ci aiuta». Fatto.
Questa è l’idea, il vero collante dell’“accozzaglia” che ha portato migliaia di studenti, lavoratori e precari a sopportare levatacce ed ore di pullman o di treno per sfilare un pomeriggio sotto il cielo terso dell’Urbe: un’idea talmente sentita e maturata negli anni che ha riempito quasi mille piazze in tutto il mondo, e che degli episodi di violenza potranno al massimo rallentare, ma mai arrestare. Riflettano coloro che dicevano che con la crisi ognuno avrebbe portato l’acqua al suo mulino, perché un referendum ci ha ricordato che l’acqua è di tutti.
Yes, we camp
“Lasciate ogni partito oh voi che entrate”. Recita così lo striscione all’ingresso di piazza Santa croce in Gerusalemme a Roma dove dal 15 ottobre sono accampati alcuni “indignati”. Sono studenti e precari, ma «ci sono anche persone che dormono qui e al mattino si vestono in giacca e cravatta per andare a lavorare», ci spiega Giulia, arrivata a Roma da Venezia. È un gruppo eterogeneo, unito dagli stessi ideali. C’è anche un ragazzo di 18 anni, addetto alla cucina, «ci sfama tutti - continua Giulia – e la sera fa tardi per rimettere a posto». C’è un alcolista che inizialmente non tutti volevano nel gruppo: ora lavora con loro, “si dà da fare e non sta neanche bevendo”, racconta Titty. Lei ha 23 anni, viene da Catanzaro e studia all’Accademia di Belle Arti. Ognuno qui svolge un compito e partecipa alle assemblee che iniziano al mattino e si protraggono fino a tardi. Ognuno condivide opinioni e si confronta. «Qui ci abituiamo all’ascolto dell’altro, parliamo molto e lo spazio-tempo si dilata», spiega Giulia. «La differenza fondamentale tra qui e fuori – interviene Titty - è che qui non puoi liquidare una persona quando non ti va più di ascoltarla, ma devi arrivare al confronto fino a quando non riesci ad accettare anche la sua visione nella tua, arrivando ad averne una più ampia». Mi chiedo e le chiedo: riuscirete a restare senza leader o qualcuno inevitabilmente cercherà di emergere? «Vedi – mi dice - io ora mi occupo dell’archivio e della segreteria del campo. Se fosse tutto nelle mie mani, si creerebbe una dipendenza da me e se mi assentassi, sarebbe un problema. Io non voglio essere un leader e per questo sto cercando di fare in modo che anche altri sappiano gestire quello di cui mi occupo io. Ma dipende un po’ anche dalle persone, perché è facile cascarci». Non mancano i problemi pratici, che però si risolvono con la buona volontà e un po’ di fantasia: piatti e panni si lavano alla fontanella della piazza, con detersivi naturali, naturalmente, c’è una bacheca dove lasciare i messaggi e una biblioteca. Manca l’elettricità, «ma potremmo produrla con le biciclette, no?». C’è anche un angolo adibito a media center. Il rapporto con i giornalisti non è sempre facile, però. «L’altro giorno, ad esempio, è venuta una giornalista di Rai 3 – racconta ancora Titty – voleva farci delle domande interrompendo la nostra assemblea, aveva fretta, voleva imporci i suoi tempi, ma anche questa è violenza». L’intervista è saltata. Il rispetto dell’altro è un valore fondamentale qui al campo, dove gli applausi in assemblea sono sostituiti da uno sfarfallio delle mani per non fare troppo rumore. Sono ben organizzati, gli “acampados” italiani, ma l’aiuto esterno è ben accetto e fortunatamente non manca, c’è perfino un dentista che si è offerto di curarli gratis. «Ci servirebbe qualche materasso – suggerisce Giulia – lo puoi scrivere? Magari qualcuno ci aiuta». Fatto.