Qui Usa. Dalla nostra “indignata speciale” a New York
Wall Street non si mangerà la Grande Mela
Dalla nostra “indignata speciale” a New York
Francesca Giuliani, 23 anni | 7 novembre 2011
“Ho quarant’anni e questa è la mia prima protesta”, recita il cartello di un improbabile occupante di Wall Street. La notizia è proprio questa: gli americani sono scesi in piazza, e non è una cosa che fanno spesso. Quando decidono di farlo, però, sono veramente avvelenati. È stato così a Boston nel 1773, quando al grido di “no taxation without representation” gettavano in mare i carichi di tè provenienti dall’Inghilterra e iniziavano a lottare per la propria indipendenza. Nella storia successiva gli americani hanno protestato per il cambiamento sociale, contro guerre che non ritenevano giuste, contro il malcostume in politica, per il miglioramento della situazione a casa propria. Ma questa volta è diverso. Questa volta la protesta americana è interconnessa con il mondo.
Sul secondo numero dello “Occupied Wall Street Journal”, il foglio dei manifestanti di OccupyWallStreet, la timeline delle proteste mondiali si parte dal 17 dicembre 2010, con le rivolte tunisine organizzate attraverso Facebook, proseguendo attraverso quelle che al Cairo hanno provocato il crollo del governo Mubarak (25 gennaio), la Londra della March for the Alternative (26 marzo) e delle rivolte contro la polizia (6 agosto), la Spagna degli indignados (15 maggio), l’occupazione di Piazza Syntagma ad Atene (25 maggio), per poi arrivare proprio a New York, dove a Liberty Square i primi manifestanti si sono accampati il 16 settembre scorso.
Nel cuore della capitale finanziaria del mondo si protesta contro i simboli del potere economico, le grandi corporations e le banche che in tempi di recessione e di crisi continuano a godere di un benessere a cui i cittadini comuni hanno da tempo detto addio. “Sono felice che la mia laurea da 50,000$ l’anno mi sia valsa uno stage non pagato”, recita il cartello di un ragazzo appollaiato su un muretto a Zuccotti Park, quartier generale del movimento.
Dalle pagine del free-press AM New York, Doug Forand, portavoce dei manifestanti, chiede: “Perché a tutti quanti è richiesto di fare sacrifici per superare la crisi mentre a questa gente viene dato più denaro da mettersi in tasca?”.
Zuccotti Park è diventato una sorta di città nella città: c’è cibo per tutti, si dispensano abiti e generi di prima necessità, si discute di politica e di economia mentre chi vuole può comporre il suo cartellone con pezzi di cartone, pennarelli e bombolette messi a disposizione dalla comunità dei manifestanti. Molti fanno donazioni, altrettanti si riforniscono delle iconiche magliette “I <3 New York” e le personalizzano con uno stencil che è diventato il simbolo della rivolta: l’omino del Monopoli con sotto la scritta “Le corporations non sono persone”.
Il movimento degli Occupanti si sparge a macchia d’olio per gli States. Tracciando il tag #OccupyAmerica su Twitter è possibile seguirne l’espansione passo passo. Los Angeles, Austin, Boston, Philadelphia, Seattle e San Francisco sono già presidiate, e anche Washington DC, dove la Casa Bianca e tutte le istituzioni politiche ed economiche d’America hanno sede, ha visto marciare duemila manifestanti da Freedom Plaza fino a sotto il Campidoglio.
Nei giorni scorsi, a New York, il movimento si è diramato fin su nell’Upper East Side, quartiere del lusso dove vivono l’amministratore delegato della banca JP Morgan Chase e il magnate dei media Rupert Murdoch. I miliardari d’America sono stati ribattezzati dai manifestanti come l’1%, che specula e guadagna alle spalle di un 99% di persone in tutto il mondo di cui gli occupanti di Wall Street vogliono essere la prima scintilla di partecipazione. Come si legge ancora sullo “Occupied Wall Street Journal”, il movimento di Liberty Square ha preso in prestito lo slogan italiano del 2008 e lo ha reso una bandiera globale: “Noi la crisi non la paghiamo”.
«Non abbiamo una lista di pretese, stiamo discutendo tra noi e ascoltandoci. Questa occupazione è prima di tutto un fatto di partecipazione», dichiarano i manifestanti, il cui punto è il seguente: «Il sistema è fuori controllo e sta distruggendo l’economia mondiale e le risorse naturali. È sotto gli occhi di tutti».
I manifestanti sanno di essere anch’essi sotto agli occhi di tutti, e aggiungono: «Gli opinionisti televisivi si chiedono “perché stanno protestando?”. Il resto del mondo invece chiede “Come mai ci avete messo tanto?”, e soprattutto ci dà il benvenuto». Quello di cui sono sicuri è che il movimento è “here to stay”, ossia non ha una data di scadenza: «Vogliamo mettere radici, non essere come quei movimenti spontanei che muoiono dopo poco perché non hanno progetti a lungo termine. Essere un movimento democratico e orizzontale è fantastico».
Sul secondo numero dello “Occupied Wall Street Journal”, il foglio dei manifestanti di OccupyWallStreet, la timeline delle proteste mondiali si parte dal 17 dicembre 2010, con le rivolte tunisine organizzate attraverso Facebook, proseguendo attraverso quelle che al Cairo hanno provocato il crollo del governo Mubarak (25 gennaio), la Londra della March for the Alternative (26 marzo) e delle rivolte contro la polizia (6 agosto), la Spagna degli indignados (15 maggio), l’occupazione di Piazza Syntagma ad Atene (25 maggio), per poi arrivare proprio a New York, dove a Liberty Square i primi manifestanti si sono accampati il 16 settembre scorso.
Nel cuore della capitale finanziaria del mondo si protesta contro i simboli del potere economico, le grandi corporations e le banche che in tempi di recessione e di crisi continuano a godere di un benessere a cui i cittadini comuni hanno da tempo detto addio. “Sono felice che la mia laurea da 50,000$ l’anno mi sia valsa uno stage non pagato”, recita il cartello di un ragazzo appollaiato su un muretto a Zuccotti Park, quartier generale del movimento.
Dalle pagine del free-press AM New York, Doug Forand, portavoce dei manifestanti, chiede: “Perché a tutti quanti è richiesto di fare sacrifici per superare la crisi mentre a questa gente viene dato più denaro da mettersi in tasca?”.
Zuccotti Park è diventato una sorta di città nella città: c’è cibo per tutti, si dispensano abiti e generi di prima necessità, si discute di politica e di economia mentre chi vuole può comporre il suo cartellone con pezzi di cartone, pennarelli e bombolette messi a disposizione dalla comunità dei manifestanti. Molti fanno donazioni, altrettanti si riforniscono delle iconiche magliette “I <3 New York” e le personalizzano con uno stencil che è diventato il simbolo della rivolta: l’omino del Monopoli con sotto la scritta “Le corporations non sono persone”.
Il movimento degli Occupanti si sparge a macchia d’olio per gli States. Tracciando il tag #OccupyAmerica su Twitter è possibile seguirne l’espansione passo passo. Los Angeles, Austin, Boston, Philadelphia, Seattle e San Francisco sono già presidiate, e anche Washington DC, dove la Casa Bianca e tutte le istituzioni politiche ed economiche d’America hanno sede, ha visto marciare duemila manifestanti da Freedom Plaza fino a sotto il Campidoglio.
Nei giorni scorsi, a New York, il movimento si è diramato fin su nell’Upper East Side, quartiere del lusso dove vivono l’amministratore delegato della banca JP Morgan Chase e il magnate dei media Rupert Murdoch. I miliardari d’America sono stati ribattezzati dai manifestanti come l’1%, che specula e guadagna alle spalle di un 99% di persone in tutto il mondo di cui gli occupanti di Wall Street vogliono essere la prima scintilla di partecipazione. Come si legge ancora sullo “Occupied Wall Street Journal”, il movimento di Liberty Square ha preso in prestito lo slogan italiano del 2008 e lo ha reso una bandiera globale: “Noi la crisi non la paghiamo”.
«Non abbiamo una lista di pretese, stiamo discutendo tra noi e ascoltandoci. Questa occupazione è prima di tutto un fatto di partecipazione», dichiarano i manifestanti, il cui punto è il seguente: «Il sistema è fuori controllo e sta distruggendo l’economia mondiale e le risorse naturali. È sotto gli occhi di tutti».
I manifestanti sanno di essere anch’essi sotto agli occhi di tutti, e aggiungono: «Gli opinionisti televisivi si chiedono “perché stanno protestando?”. Il resto del mondo invece chiede “Come mai ci avete messo tanto?”, e soprattutto ci dà il benvenuto». Quello di cui sono sicuri è che il movimento è “here to stay”, ossia non ha una data di scadenza: «Vogliamo mettere radici, non essere come quei movimenti spontanei che muoiono dopo poco perché non hanno progetti a lungo termine. Essere un movimento democratico e orizzontale è fantastico».