L’esame di Stato pare già un ricordo lontano, mentre l’agognata libertà prorompe col suo carico di aspettative e leggerezza. È l’estate in cui la conradiana linea d’ombra che ti separa dal mondo dei grandi si fa tangibile e vivida, e tu, nel percepirne la concretezza, vuoi trovare come una legittimazione ufficiosa al suo superamento. Pertanto è una sensazione nuova quando, una mattina di luglio alle sette, ti svegli non più tormentato dall’ansia e dal caldo insostenibile, ma entusiasta persino di caricarti uno zaino stracolmo sulle spalle e di controllare passaporti e documenti vari, con gli occhi semichiusi che ti richiamerebbero volentieri a letto.
È da marzo, bene o male, che il viaggio s’ha da fare. Danimarca, Svezia, poi discesa in Norvegia. Anzi no, prima Norvegia sin quasi al polo, poi fino a Stoccolma in treno. Perché no, tappa iniziale ad Amsterdam e da lì fino a Copenaghen, passando per la Germania, poi tutto il resto. E l’asse Amsterdam-Stoccolma fu tracciato.
Cinque mesi dopo, aeroporto di Fiumicino. Cinque ragazzi, gli ultimi genitori seminati lungo la strada per il gate, ché almeno stavolta dev’esser fatto tutto da soli; ne vale l’orgoglio e una buona fetta di autostima. Non fosse per un biglietto di ritorno Norvegia-Italia prenotato il giorno prima, tutto secondo le previsioni. Del resto, l’Interrail è destino comune di centinaia di maturandi italiani e ardimentosi viaggiatori europei: non è certo la Transiberiana, per quanto il fitto intrico di scambi ferroviari e tratte marittime da noi prescelto non disdegni affatto i cliché del viaggio d’avventura.
Atterriamo ad Amsterdam a ora di pranzo, poi diretti all’ostello, che dello spartano asilo per pellegrini a dire il vero non ha nulla. Sarà l’entusiasmo dei tanti giovani di cui pullula, la vantaggiosa prossimità di Vondelpark o l’allettante offerta di bike sharing. Stayokay, recita l’insegna: vale la pena fidarsi. Il parco limitrofo è gremito di comitive sedute in circolo, audaci bambini nordici che si tuffano nel laghetto, café prospicienti sull’ampia distesa verde che suggeriscono suggestivi scorci impressionisti. Non molto distante la scenografica Museumplein, la vasta piazza su cui si affacciano, circondandola, i tre maggiori musei della città: lo Stedelijk, che vanta un’estesa collezione di opere d’arte moderna e contemporanea; il Rijksmuseum, dove la scena la rubano i fiamminghi Rembrandt e Vermeer; il Van Gogh Museum, con i dipinti del maestro olandese. Condensare tutto in due giorni non è cosa da poco; aggiungi pure una visita al NEMO, il Museo della Scienza, ed è già quasi tempo di ripartire.
Amsterdam è un polo frenetico e vivo: le gallerie d’arte sui canali fanno da pendant a coffee shops dove fumare hashish e marijuana in libertà – l’assistente di volo a Fiumicino aveva avvertito, “ad Amsterdam si vede e si agisce” –, ai locali più chic s’accostano le vetrine a luci rosse da cui fanno capolino cosce tentatrici e sguardi ammiccanti. Morale: meno divieti, più responsabilizzazione individuale. Almeno sulla carta.
Da Amsterdam a Giethoorn sono meno di due ore, incluso il cambio di treno a Utrecht. Viaggiamo di mattina, ci toccherà un primo pomeriggio sotto il sole rovente; per fortuna Giethoorn è costruita, di fatto, solo sui canali – che del resto sono il motivo per cui siamo lì –, magari un po’ di vento tirerà. In due ore di spostamenti in battello, faccio in tempo a dimostrare che la patente nautica l’ho meritata, eccome, esibendomi in un frontale indolore con i rivali giapponesi; per il resto ordinaria amministrazione, con annesso pit stop su un isolotto arbitrariamente ribattezzato Grenouillère, solo un po’ meno pittoresco degli originali di Monet e Renoir. Poi inizia l’odissea.
Da Giethoorn a Copenaghen, secondo i nostri piani, si fa in un pomeriggio e una notte. Una decina di treni da cambiare e, soprattutto, da prendere al volo, essendo tutti ravvicinati: coincidenze studiate a tavolino da Flavio, scrupolosissimo e instancabile group leader. Peccato che il treno Hengelo-Osnabrück, imprevedibilmente, risulti cancellato sulla tabella, cosicché si debba attendere il successivo. A catena salta tutto, o quasi, e tocca studiare un piano B. Il prezzo da pagare è duplice: notte in stazione nella tedesca Flensburgo, arrivo in terra danese dopo un paio d’ore scarse di sonno.
Sul convoglio ferroviario, dalla mezzanotte in poi, siamo solo noi: da Amburgo a Neumünster e, poi, da qui a Flensburgo, qualche sparuta presenza poco raccomandabile, un drappello di controllori, nulla più. Ad accoglierci, una sala stretta con due file di sedili e un bar chiuso con la saracinesca: decisamente poco invitante, per cui optiamo per una sistemazione di fortuna all’aperto, nel piazzale antistante, intabarrati fino alla testa per ripararci dal freddo. Pazienza se ci si deve accontentare di un muretto e di un k-way a mo’ di coperta: sono quelli i momenti in cui impari a metterti in gioco, a rivedere i tuoi progetti, tanto da preferire alla monotonia d’una notte taciturna una confidenza tra amici o due risate al chiaro di luna.
Ci ritroviamo a Copenaghen il dì seguente all’ora di pranzo. È come se il tempo si fosse illusoriamente contratto, quella mattina: intanto entravamo in Danimarca, con tappe a Kolding e Høje-Taastrup. Menomale che il nostro Lapo, solitamente tra gli ultimi ad alzarsi, proprio quel giorno decidesse di restare sveglio per quasi quarantotto ore: alle due di pomeriggio è lui a guidarci in esplorazione.
Quel che ci colpisce subito è la quiete, come onirica, che avvolge la capitale nordica: qui tutto tace, dall’alba fino a sera, e solo il viavai degli autobus scandisce i ritmi inderogabili della quotidianità. Pochi passi a piedi separano il fiabesco quartiere di Christiania – comunità indipendente nella cui via principale, Pusher Street, proliferano i chioschi che vendono hashish – e l’imponente Museo Nazionale, che contempera reperti della tradizione e collezioni etnografiche di più ampio respiro. Accanto alla Ny Carlsberg Glyptotek, i pittoreschi Giardini di Tivoli, più un luogo da cartolina che un parco divertimenti all’avanguardia; non lontano dalla celebre statua della Sirenetta, l’antico porto di Nyhavn, con case a schiera dai colori sgargianti affacciantesi sui canali.
Dopo il tramonto è ormai tutto chiuso: si sentono solo musica da una camera d’albergo e il vociare di alcuni autoctoni un po’ brilli al tavolo di un pub che, all’esterno, sembra piuttosto un grande supermercato in disuso. Ci offrono un bicchierino di liquore e quattro chiacchiere in compagnia: magra consolazione, nel buio tombale.
Tanto fredda, benché intrigante, appare la capitale quanto invece luminosa la campagna danese, fino alle estreme propaggini settentrionali: è da qui, precisamente da Hirtshals, che ci imbarchiamo alla volta della Norvegia. Kristiansand e Stavanger, sulla costa meridionale, mostrano sin da principio la caratteristica architettura nordica, come si evince dalle cattedrali in stile gotico; semplice l’organizzazione urbanistica, con le vie principali che s’intersecano a scacchiera. Un alito di vento, di tanto in tanto, movimenta gli stormi di gabbiani sul Mare del Nord, in un’estate eccezionalmente calda.
Arriva, attesissimo, il giorno dell’escursione: quattro chilometri tra i boschi, più di tre ore tra andata e ritorno fino al Preikestolen, il “Pulpito di roccia”, una falesia spettacolare a strapiombo sul Lysefjord. 604 metri fra te e il mare, in mezzo il nulla: ricorda assai il Viandante sul mare di nebbia di Friedrich, quel sublime matematico di kantiana memoria che è insieme sbigottimento e inquietudine. Una meraviglia della natura, scevra da ogni possibile contaminazione artificiale. Ma è tutto una meraviglia qui: ogni tragitto in treno o in traghetto è un tuffo al cuore, tanto è il fascino di ecosistemi splendidamente compositi. Fiordi, betulle, laghi, arbusti, licheni, nebbia, sole, poi ancora nebbia, tutto in una manciata di chilometri.
Ci fermiamo a Bergen per poco più di un pomeriggio: richiamati dai pescatori del mercato cittadino, in molti di origini italiane, facciamo uno strappo alla regola e ci concediamo un pranzo a base di gamberi e balena. Poi su per la funicolare Fløibanen, che ci conduce sul monte Fløyen: in basso è una sequenza continua di case in legno costruite sul vecchio molo, a disegnare una specie di U colorata.
L’indomani cancellano il bus. I norvegesi suppliscono a un’apparente défaillance organizzativa con un’improvvisa mobilitazione di tassisti, confermandosi pronti ed efficienti. Per noi cambia poco: a mezzogiorno, da Myrdal, partiamo per Flåm lungo una tra le ferrovie più gettonate al mondo. In serata sarà la volta di Oslo.
La capitale si rivela città moderna, ben più viva di quanto possa trasparire dagli oli su tela di Munch: il corso Karl Johan, espressionisticamente dipinto quale scenario di alienazione e smarrimento, è ora un viale punteggiato di negozi, alberghi e locali notturni; la Stazione Centrale è luogo frenetico e vivace, come la zona dell’avveniristico Teatro dell’Opera, proprio sulla punta del fiordo di Oslo. Certo, è più facile rimanere ipnotizzati come noi per due ore dinanzi a Occhi negli occhi o La fanciulla malata del pittore scandinavo, oggi al Munchmuseet. Di sera, poi, ci costringono a un vagare errabondo per le vie del centro: alla disco non entri con meno di ventitré anni, anzi venticinque, no ventiquattro, ognuno dice la sua, fatto sta che diciotto è poco e ti cacciano via. E la barba non vale un accidente.
Da Oslo alle Lofoten, dove abbiamo affittato una casa, sono quasi due giorni passando per Trondheim e Bodø. Due delusioni: niente maglia del Rosenborg – i negozi chiudono alle cinque – e duplice lezione di pronuncia da parte di tipi del posto, che con aria di scherzoso rimprovero scandiscono “Buda”. Noi muti. Però qui sanno anche essere gioviali e disponibili, a dire il vero la stragrande maggioranza delle persone lo è. Sul treno notturno m’intrattengo con un signore che, ironicamente, lamenta i flussi migratori nelle sue Lofoten: non sono africani e mediorientali in cerca di accoglienza, ma le sterminate orde di russi e asiatici con le aste per i selfie. Ben altri problemi.
Sbarcati a destinazione, ci accorgiamo che un’ora a piedi, con tanto di zaini prossimi allo sfondamento in spalla, ci separa dalla nostra casa. Siamo a Sund, sull’isola di Flakstad: sei-sette palafitte di pescatori, la fucina di un fabbro che produce cormorani in ferro battuto, riadattata a museo, e supermercato più vicino a cinque chilometri di distanza. Noleggiamo una macchina, e iniziano tre giorni on the road fra un’isola e l’altra, tra il verde dei rilievi e l’azzurro dell’acqua che si completano simbioticamente. In macchina, si sfreccia. A piedi, si arranca. Un gruppo di ragazzini norvegesi spegne le nostre velleità calcistiche sul campo di Ramberg, mettendo a nudo evidenti limiti tecnici e fisici. La voglia di rivalsa e l’orgoglio, tuttavia, ci spingono sulle pendici di una montagna tra le più alte della zona – non per gli autoctoni, a dire il vero –; pazienza se il sentiero si rivela presto una scalata ripidissima, non abbastanza però da impensierire gli intrepidi Lapo e Flavio, che salgono fino in cima. Al risveglio muscolare provvedono un bagno corroborante nell’acqua gelida e la cena servita da Andrea e Giovanni; io mi limito ad apparecchiare.
Io e Lapo, pochi giorni dopo, siamo i primi a disertare a causa di indicibili impegni familiari. Gli altri proseguono fino ad Abisko, in Svezia; noi ci fermiamo a Narvik, non così distante dal polo. Le nubi avvolgono le vette sullo sfondo in una coltre funerea, e un temporale rovinoso sembra punirci per la dipartita precoce. Nessuno in giro, non ci vuole neppure il Burger King in chiusura alle otto. Un panino sotto la pioggia, sulle panchine bagnate, nella strada deserta e buia. Eh sì, la linea d’ombra.
L’indomani mattina partiamo.