Quel meraviglioso e pirotecnico spettacolo che sa essere il calcio, dopo lo struggente addio di Buffon alla Juve sabato pomeriggio, ci ha regalato domenica sera il non meno suggestivo addio di Andrés Iniesta al Barcellona. E se a Torino, nonostante le lacrime e gli abbracci, ha prevalso comunque la tipica sobrietà sabauda, in una cerimonia conclusasi con la consegna della coppa dello scudetto e uno Stadium con gli occhi lucidi, in cui i pianti si mescolavano con il crosciare di una pioggia battente, in quel catino infernale del Camp Nou l'atmosfera profumava davvero d'incanto.
Don Andrés da Fuentealbilla arrivò al Barça che era ancora bambino, appena dodicenne, e si mise subito in mostra per il suo ineguagliabile talento, la sua eleganza e la sua classe sopraffina, al punto che pare che Pep Guardiola, vedendo giocare lui e Xavi, disse a quest'ultimo che lo avrebbe mandato in pensione e a Iniesta che avrebbe mandato in pensione tutti. E così è stato.
Ieri sera Xavi era in tribuna ad applaudire l'amico e compagno di una vita, mentre Leo Messi e gli altri risolvevano senza particolare impegno la pratica Real Sociedad e l'intero stadio attendeva unicamente il momento in cui don Andrés sarebbe diventato il protagonista assoluto della serata. Lui, il numero 8 che rovesciato significa infinito, il campione eterno, il capitano, il simbolo della stagione più soddisfacente della ricca storia blaugrana, lui che a quei colori ha dato tutto e che contro quei colori non ha mai accettato di giocare, lui che ha preferito andare via, lontano, pur di non dover mai correre il rischio di essere schierato contro il suo cuore. Don Andrés come Totti, Del Piero, Maldini e pochi altri: uno degli ultimi romantici in una stagione di mercenari, uno dei pochi fuoriclasse assoluti che si ricordino, uno che nel 2010 avrebbe ampiamente meritato il Pallone d'oro e che non per questo ha mai serbato rancore nei confronti di Messi, uno che ha donato gioia e felicità a chiunque abbia avuto l'onore di vederlo giocare, uno che ha rappresentato la scienza applicata al calcio e reso possibile l'impossibile.
Don Andrés e un intero stadio da centomila posti in piedi ad applaudire, un solo grido, una sola voce, una sola anima e una ridda di ricordi che si rincorrevano, a rendere omaggio alla più felice epopea che una squadra di calcio e una comunità di uomini in generale avrebbe potuto vivere, con i gioielli del proprio vivaio protagonisti di un decennio di gloria senza eguali, al punto che Iniesta lascia dopo aver alzato il suo trentaduesimo trofeo, cui si sommano i due Europei e il Mondiale vinto con la Spagna, peraltro togliendosi la soddisfazione di segnare il gol decisivo nella finale contro l'Olanda.
La commozione era, dunque, d'obbligo, domenica sera, osservando la cerimonia blaugrana in onore del proprio mito. Una commozione spontanea, genuina, profonda, un capitolo di storia che si chiude e che siamo certi si riaprirà a breve, quando don Andrés e Xavi faranno ritorno dalle parti del Camp Nou per mettere la propria magia e la propria esperienza al servizio di una nuova generazione di fenomeni.
E lo stesso accadrà a Wembley ogni volta che si affaccerà sulle tribune Arsène Wenger, il genio francese che, in ventidue anni di permanenza sulla panchina dei Gunners, ha rivoluzionato la Premier League, plasmato fuoriclasse come Henry e mostrando al mondo un gioco fra i più spettacolari ed efficaci di sempre.
Non ho dubbi che, in questo momento, in qualche angolo del mondo, un bambino stia correndo dietro a un pallone sognando di imitare le imprese di Iniesta e di essere allenato da un "padre" come Wenger. E in questo momento, in quello sperduto angolo di mondo che magari non è segnato nemmeno sulle carte geografiche, come ha scritto Galeano, sta ricominciando la storia del calcio. Anche perché Iniesta, e qui scomodo Osvaldo Soriano, appartiene alla categoria di coloro che hanno saputo vedere spazi dove non avrebbero mai dovuto esserci. Andrés Iniesta, il poeta del gol.