Trentacinque anni dell'arresto, trenta dalla scomparsa: caro Enzo, dove eravamo rimasti? Ci siamo persi nella nebbia della furia giustizialista e nel fanatismo del suo opposto, in un garantismo peloso e senza costrutto che mira più all'impunità dei potenti che all'effettivo rispetto della dignità delle persone.
Trent'anni senza Enzo Tortora, trent'anni senza la sua tivù garbata e capace di entrare in punta di piedi nelle case degli italiani, trent'anni senza la testimonianza del suo martirio, dell'ingiustizia che ha subito e che, di fatto, lo ha ucciso, trent'anni senza memoria e senza un'adeguata analisi di uno dei più gravi errori giudiziari che si ricordino.
Enzo Tortora venne strumentalizzato ed usato per infangare l'immagine dei pentiti, venne colpito da una camorra senza pietà per via delle sue denunce, venne gettato nel tritacarne mediatico e difeso solo da pochi galantuomini, garantisti autentici e senza secondi fini, a cominciare da Biagi e Montanelli, che non credettero mai alla sua colpevolezza e presero pubblicamente posizione in suo favore.
Enzo Tortora, un innocente, arrestato come un criminale e capace, nonostante questo, di affrontare a testa alta il calvario che lo ha straziato: nel fisico e nella mente.
È impossibile immaginare a cosa abbia pensato nei giorni della detenzione, quante riflessioni di siano affastellate nella sua testa, quanto dolore abbia provato, quante sofferenze abbia dovuto patire la sua famiglia. Possiamo scriverne ma non possiamo e non vogliamo capirlo, in quanto per comprendere determinate situazioni bisogna viverle e non auguriamo a nessuno un simile strazio.
Ci dispiace solo vedere il suo nome costantemente strumentalizzato per delle vergognose campagne contro la magistratura, volte non a ripristinare il sacro valore costituzionale del garantismo quanto ad affermare la non punibilità degli amici degli amici e a giustificare riforme della giustizia che mai un liberale come Tortora avrebbe potuto avallare.
Ci dispiace che, con la sua morte, sia scomparsa anche la sua idea di televisione, a metà fra il varietà e l'analisi sociale, in una stagione in cui il servizio pubblico era ancora un esempio di qualità, professionalità e gentilezza, benché la cappa partitica lo assfissiasse e generasse, talvolta, censure intollerabili.
Per compiere un dibattito su Tortora occorrerebbe una serenità d'animo, una stabilità politica e un'analisi del mezzo televisivo e delle sue finalità che è lontana anni luce dallo stato attuale del nostro Paese, in cui l'urlo sguaiato, la volontà di potenza e il cinismo di soggetti senz'arte né parte sembrano ormai dominare ogni segmento della vita pubblica.
E così ci rimane l'immagine pulita di questo gentiluomo d'altri tempi, di questo signore genovese che si era inventato Portobello e aveva condotto la Domenica Sportiva, che sapeva creare nuovi format e portate al successo quelli consolidati, un uomo del servizio pubblico con un'idea nobile dello stare insieme e un rispetto oggi perduto per il proprio lavoro e per i propri collaboratori.
Con la morte di Tortora è venuta meno una certa idea d'Italia, una certa idea di RAI, una certa concezione dello spettacolo e del varietà, dell'informazione e del rapporto con i cittadini. E in questo vuoto l'assenza brucia, oltre al rimpianto per ciò che non è stato e al senso di smarrimento collettivo per una ferita impossibile da sanare: il dramma di un singolo trasformatosi in una sconfitta per tutti e senza possibilità d'appello.