Giovedì 23 febbraio al DAMS Lab dell'Università di Bologna si è tenuto il primo incontro della serie Cose che cambiano, organizzata dall'ateneo per approfondire delle tematiche e delle realtà in forte cambiamento nell'era dinamica che stiamo vivendo. L'evento innaugurale, Città che cambiano, ha visto la partecipazione di due esperti: Davide Agazzi - esperto di trasformazioni urbane e di sviluppo locale, componente del compitato esperti della Regione Emilia-Romagna su economia urbana e sociale - e Silvia Cafora - ricercatrice del Politecnico di Torino per le politiche abitative.
La crisi delle città
Punto focale dell'incontro è stato l'incontrastabile processo di cambiamento che sta attraversando le città, acuito dalla pandemia. Cafora ha ricordato che il 60% della popolazione globale vive in ambiti urbani, e pertanto è inevitabile che il cambiamento vada a intaccare la vita di più di quattro miliardi di persone. La pandemia, che ha costretto tutti a fermarsi, ha permesso di riflettere sul significato del vivere in città: "Le città funzionano quando sono oggetti e macchine in continuo movimento: se i servizi, le opportunità e le iniziative culturali mancano, come è avvenuto in pandemia, vengono fuori i problemi che esse comportano", considera Agazzi. E queste problematiche riguardano le case troppo piccole, che non rispondono a nuclei famigliari decisamente diversi rispetto a quelli per cui sono state costruite generalmente più di cinquant'anni fa, senza dimenticare le relazioni sociali spesso poco vivibili in mezzo al trambusto delle grandi città. Cafora tiene a ricordare che il problema è innanzitutto socioeconomico: "Oggi si sono innescate nuove criticità, disuguaglianze inedite rispetto al passato, di accesso ai beni, che sono sempre meno pubblici e più privatizzati". Non che la risposta sia semplice: la ricercatrice del Politecnico di Torino evidenzia che i comuni sono alle prese con grandi cambiamenti demografici, e spesso è difficile starvi al passo. Si tratta di nuovi modelli di famiglia che richiedono nuove tipologie di spazi e il venir sempre meno dell'idea di casa come "bene comune", sorpassato dalla concezione come "bene economico", per via del mercato.
Il mito della città dei 15 minuti
Sia Agazzi che Cafora non tardano a ricordare il "mito" della città dei quindici minuti, per cu ogni cittadini dovrebbe avere a disposizione ogni tipologia di servizio entro un quarto d'ora dalla sua abitazione, all'interno del suo stesso quartiere. Ma si tratta davvero di una soluzione? "Avere in ogni quartiere gli stessi servizi non solo è un'utopia a cui ci si può avvicinare in tanti decenni, ma riducendo la città a un quartiere si ottiene quello da cui si fugge andando in città: un paesino", commenta Davide Agazzi, "E in ogni caso le differenze tra quartieri più o meno belli permerrebbe". Cafora la vede allo stesso modo: "Dove si creano servizi, anche in quartieri più "difficili", si rischia di espellere gli abitanti per cui questi servizi sono stati attivati. Un esempio è Nolo a Milano, la creme culturale hipster ha aggiunto servizi e accesso alla cultura, ma gli abitabti storici hanno dovuto lasciare il quartiere per l'aumento vertiginoso dei prezzi".
I nuovi modelli abitativi delle iniziative "dal basso"
Silvia Cafora presenta delle statistiche gravi: "il 5,3% della popolazione soffre di un grave disagio abitativo, crescente solitudine e mancanza di cure". La causa è da ritrovarsi nella contrazione del welfare state, con conseguente smantellamento dell'housing pubblico: gli affitti calmierati sono una rarità e la casa è considerata un valore economico e non un diritto. A ciò si aggiunge la turistificazione delle città, con molti appartamenti che diventano Airbnb: un'attività più redditizia per i proprietari, piuttosto che un affitto mensile. Cafora sostiene che siano le iniziative dal basso a salvare le città (o per meglio dire, i cittadini) dal baratro: "Producono nuovi modelli abitativi che rispondono a necessità di natura economica e architettonica: edifici con spazi comuni, aperti alla città, e appartamenti a cluster che uniscono vari nuclei famigliari". In Italia il processo è però ancora giovane: "In Germania erano alla nostra situazione a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta, e l'attivismo civico è iniziato prima". Insomma, ad oggi i progetti di housing innovativo e più accessibile sono molto più maturi. Anche la Spagna è un esempio da seguire: "A Barcellona il fenomeno Airbnb era assurdo" afferma Cafora, "L'attuale sindaca Ada Colau era un'attivista per la casa, e sono stati attivati piani interessanti per migliorare la crisi abitativa". Ma quali sono questi modelli innovativi di "abitare"? I due esperti fanno riferimento al Mietshäuser Syndikat di Friburgo (Germania), una joint venture che aiuta gruppi di cittadini ad acquisire abitazioni a prezzi accessibili attraverso un accordo di proprietà collettiva. Iniziative simili si hanno in altre zone d'Europa con le cooperative d'abitazione in gestione d'uso. Realtà che in Italia sono appena 27, principalmente nell'Italia Centro-settentrionale. Secondo Cafora, manca quindi un portato rivoluzionario: "Dobbiamo avere un grande rimorso: abbiamo un buon sistema cooperativo nato a fine Ottocento, ci sono cooperative che si occupano di ogni ambito della vita del singolo, ma non si sono attivate per portare modelli abitativi alternativi".
Un problema innanzitutto culturale
Se i tempi cambiano, devono cambiare anche i modi di agire. E questo in Italia facciamo fatica a capirlo. Per Cafora manca l'idea di produrre un modello abitativo che vada a scardinare i disagi del vivere in città nel 2023. Manca la visione di un modo di abitare differente, più comunitario, e c'è uno scarso attivismo per queste problematiche. Un limite che possiamo insomma definire innanzitutto culturale. La ricercatrice fa infatti notare che in Italia ci si appoggia ancora molto al sistema famigliaristico, ben superato in altre parti dell'Europa Occidentale: "Ci si appoggia ancora al patrimonio della famiglia, e ciò aumenta la forbice delle disparità".