In Italia 15 ospedali non permettono di abortire
Stando alle medie nazionali solo un ginecologo su tre non era obiettore nel 2019, uno su cinque nel Mezzogiorno; a ciò si aggiungono le difficoltà normative di alcune regioni
Giada Lettonja | 27 ottobre 2021

In questi giorni ha fatto molto discutere una notizia, pubblicata su diverse testate nazionali, che denunciava la presenza in Italia di quindici ospedali privi di ginecologi non obiettori. Il dato, emerso da una mappa presentata dall’Associazione Luca Coscioni, mette in luce una situazione drammatica, che è in realtà ben più ampia ed endemica di quanto simili numeri già non suggeriscano. Stando alle medie nazionali, difatti, solo un ginecologo su tre non era obiettore nel 2019, uno su cinque nel Mezzogiorno. La scarsità di personale non obiettore va poi spesso a sommarsi alle varie limitazioni regionali in materia di interruzione volontaria di gravidanza (IVG) che negli ultimi anni hanno caratterizzato l’agire di giunte di destra. In Piemonte, ad esempio, nell’ottobre scorso, l’assessore Marrone (FdI) ha stabilito attraverso un atto amministrativo l’ingresso privilegiato delle associazioni ‘pro-vita’ negli ospedali e nei consultori, nonché il divieto di praticare l’aborto farmacologico in questi ultimi. Lo stesso divieto è stato ordinato anche dalle giunte regionali dell’Abruzzo e delle Marche, mentre il capogruppo al consiglio regionale delle ultime, Carlo Ciccioli (FdI), presentava una proposta di legge ‘in sostegno della famiglia, della genitorialità e della natalità’, adducendo come ragione il pericolo di una ‘’sostituzione etnica’’ e la salvaguardia della cosiddetta ‘’famiglia tradizionale’’. In Molise la percentuale di obiettori tra i medici supera il 90%, e qualche mese fa l’unico ginecologo rimasto a praticare l’IVG ha ritardato per la seconda volta il pensionamento, vista l'assenza di un sostituto.

I problemi della pandemia

Tra la prima e la seconda ondata di Coronavirus, inoltre, l’accesso ai servizi di IVG è stato ulteriormente intaccato dalla chiusura dei reparti dedicati negli ospedali. Diverse donne sono state costrette a spostarsi di città o di regione per riuscire ad abortire, così come a "scegliere" la procedura chirurgica anziché quella farmacologica, per cui è richiesta un’ospedalizzazione di tre giorni. Tra rimbalzi da un ospedale all’altro e il rifiuto di eseguire la procedura su pazienti non residenti, la pandemia è stata l’ultimo strappo subìto da una rete che timidamente cerca di garantire l’erogazione dei servizi abortivi.

La riforma

Grazie alla mobilitazione di diverse associazioni attive nella tutela di tale diritto si è arrivati però ad una svolta: nel luglio scorso, il ministro della salute Roberto Speranza ha finalmente deciso di aggiornare le linee d’indirizzo sull’interruzione volontaria di gravidanza. La circolare ha rimosso, dopo anni di proteste in tal senso, l’obbligo dei tre giorni di ricovero in seguito alla somministrazione della RU486 e ne ha autorizzato l’uso anche all’interno dei consultori e degli ambulatori, estendendo inoltre di due settimane il termine ultimo di fruibilità prima previsto. L’aggiornamento delle linee guida è stato fortemente contestato da gran parte della destra italiana, e spesso le regioni si sono sottratte di fatto alla loro applicazione con norme proprie. Nel frattempo le donne hanno continuato a denunciare l’insufficienza delle misure, davanti a un altissimo tasso di personale obiettore di coscienza, che in alcuni casi arriva a interessare intere strutture, che è sufficiente a rendere l’aborto un procedimento lungo e difficile, nonché psicologicamente pressante.

Come migliorare la situazione?

Da sempre associazioni come NUDM sostengono che servirebbe agire con specifiche misure di supporto alle donne che non portano avanti la gravidanza per motivi economici. Potenziare il welfare, insomma, anziché investire nei pro-vita. Al contrario, affidare il compito ad associazioni terze e ultracattoliche, finanziate con fondi pubblici, aprire loro le porte di luoghi laici e di supporto come dovrebbero esserlo consultori e ospedali, significa minare la possibilità di scelta delle donne e portare avanti sui loro corpi una battaglia politica.

Se la lotta che portò alla promulgazione della celebre 194 e alla depenalizzazione dell’aborto si svolse al grido “Tutte noi abbiamo abortito”, oggi il motto che guida l’agire di movimenti come Non una di meno è ‘’Sul mio corpo decido io”, perché regolamentare non significa necessariamente rendere praticabile, come avevano intuito le femministe che si batterono per la depenalizzazione dell’aborto. Molte temevano che una regolamentazione in tal senso, anziché aprire loro la strada verso l’autodeterminazione, avrebbe finito per rendere i loro corpi terreno di battaglia politica. In effetti, a vedere quanto è stato dal '78 ad oggi, è difficile non dare loro ragione.