Nicolò Govoni, classe 1993, è uno scrittore e attivista per i diritti umani, nonché il Direttore esecutivo dell'ONG Still I Rise, che dal 2018 si occupa di rendere l'istruzione accessibile a tutti i bambini profughi ai quali è stata negata. Ad oggi, Still I Rise ha aperto diverse scuole internazionali e centri di emergenza e come dice Nicolò, seppure "un bambino alla volta", ha salvato tante anime. Ora si trova in Kenya, dove tra le mille voci dei suoi alunni, ho avuto l'opportunità di parlare con lui.
Avevi 20 anni quando sei partito per l'India come volontario. Cosa ti ha spinto a prendere questa decisione?
La mia adolescenza è stata abbastanza turbolenta, con vari fallimenti scolastici e così via. Ero considerato un fallito. E quando ti viene attribuita un'etichetta, provi a combatterla ma finisci anche per accettarla. Nel mio caso è stata davvero una spirale discendente verso la bassa autostima, verso un'incertezza identitaria. Ciò che mi ha spinto a reagire è stato toccare il fondo. Ho avuto come un moto istintivo di rivalsa. Nella fattispecie, uscivo da una storia travagliata nella quale ero coinvolto da molto tempo e vedevo tutto quello che mi circondava come una delusione, un fallimento e la mia reazione istintiva e viscerale è stata quella di partire.
Come ti è venuta l'idea di iniziare a scrivere libri per sostenere la realtà in cui operavi?
Quando sono arrivato in India ho trovato qualcosa che mi ha ispirato, una connessione. Dopo anni di totale smarrimento ho ripreso in mano la mia vita e in quel momento scrivere un libro mi è sembrato l'unico modo per tornare a vivere. Penso sia molto importante avere qualcosa da dare quando si fa volontariato, non puoi semplicemente farlo senza avere qualche valore da scambiare e il mio unico mezzo a disposizione era proprio la scrittura. Così ho deciso di mettere a frutto l'unica abilità che io davvero avessi: raccogliere le loro storie, raccontarle, diffonderle e da queste generare un valore.
Quando si parla di scuola in Italia, il valore che le viene più spesso associato è la rigidità dei metodi. Quali sono i valori che vuoi trasmettere ai ragazzi?
Noi apriamo scuole nel mondo, offriamo il Baccalaureato internazionale, che è un modello diametralmente opposto rispetto alla scuola tradizionale, decisamente più umano e meno accademico. Il fatto è che nella scuola tradizionale tutto è semplificato in due grandi valori: talento contro duro lavoro. È più importante nascere bravi, con una propensione o è più importante diventare bravi attraverso il duro lavoro? In realtà questo ragionamento è fallace perché manca una terza componente, che è l'ambizione. Ambizione vuol dire sapere esattamente cosa vuoi e fare tutto ciò che è necessario per arrivarci. La scuola non insegna ad essere ambiziosi, a correre rischi; perché avere un'ambizione vuol dire anche uscire dagli schemi. La nostra è una società rotta, costituita da persone insoddisfatte, infelici, che non riescono a collaborare e lavorare insieme. Se manca l'ambizione, il tuo talento andrà sprecato.
Tra il 30 e il 31 ottobre si terrà a Roma il Vertice dei Capi di Stato appartenenti al G20. Dell'Africa parteciperà solo 1 paese su 54, Il Sudafrica. Cosa ne pensi?
Penso che sia molto coerente con il modo con cui organizziamo il mondo. Storicamente l'Africa è un terreno di saccheggio, lo era durante il colonialismo e lo è adesso. È normale che nel momento in cui si vuole sfruttare un Paese gli si neghi la voce, no? La critica che spesso viene fatta è che questi Paesi non sono abbastanza sviluppati per sedersi a questo tavolo, ma il problema è che se non gli si danno gli strumenti per emanciparsi, queste persone non potranno mai sedersi alla tua tavola, e non potranno farlo perché non vuoi che si siedano accanto a te. Il mondo sta attingendo da questo continente in modo massivo per quanto riguarda le risorse, senza dare nulla in cambio. Se si vuole continuare questo tipo di condotta di business, è totalmente controproducente emancipare queste persone o dare loro gli strumenti per amplificare la loro voce.
Alla voce negata dell'Africa si aggiunge anche la disinformazione. Come si combatte questo comportamento?
Con l'informazione. Questa è veicolata da aziende che hanno bisogno di un introito e per ottenerlo necessitano di una breaking news e notizie sensazionalizzate a discapito dell’approfondimento. Basti pensare al racconto della crisi afghana: i media hanno raccontato solo la punta dell'iceberg, senza analizzare che la situazione attuale è il prodotto di 200 anni di ingerenza esterna. Ma dobbiamo essere in grado di sviluppare una nostra capacità critica: l'informazione è disponibile, nulla è particolarmente celato ed è necessario imparare a ricontestualizzare la breaking news, che in sé non è falsa, è semplicemente parziale. Il momento storico in cui viviamo lo facilita, siamo in un'epoca di democrazia dell'informazione, internet ha aperto delle porte che prima non esistevano, ora abbiamo la possibilità di essere coloro che definiscono ciò che apprendono.
Alla luce delle tue esperienze passate, come ti vedi nel futuro?
Spero che Still I Rise possa crescere sempre di più e diventare un centro per l'educazione mondiale che mantenga i nostri valori e un equilibrio tra grandezza ed etica. Una crescita che ci permetta di essere ovunque ci sia bisogno, quindi scuole di emergenza, scuole internazionali, una rete che possa dare supporto, riabilitazione e ricostruzione a bambini di tutto il mondo. Mi piacerebbe che il nostro modello diventasse solido, comprovato e così riproducibile da lavorare anche con il Ministero italiano dell'Istruzione, per cercare di potenziare, rivoluzionare e anche sanare il sistema scolastico. Dal punto di vista personale io spero di riuscire a fare quello che faccio e come lo faccio al più lungo possibile, perché è davvero una gioia per me poter fare questo lavoro.
Qual è il ricordo più bello che ti porti dentro della tua esperienza finora?
Il regalo di un gruppo di studenti per la festa del papà. È bizzarro perché non sono un padre e loro lo sanno benissimo, ma questo loro legame umano mi fa capire che c'è un valore personale oltre che professionale. La nostra è una scuola formale, io mi comporto come un insegnante, e come è giusto che sia c'è un distacco tra gli insegnanti e gli alunni. Ma sono questi gesti che ti fanno capire che questa non è solo una scuola, c'è molto di più, c'è il senso di famiglia.