Gli ultimi due anni sono stati difficilissimi per tutti. La pandemia ci ha portati a cambiare il nostro stile di vita, le nostre abitudini e riorganizzare la nostra vita. Tutto ciò ha ovviamente gravato sullo stato psicologico in modo particolare sui giovani, che ne hanno pagato le spese più di tutti. La situazione pandemica ci ha portati a vivere chiusi in casa per un tempo molto prolungato, provocando un danno molto serio. La lontananza dagli affetti, ha fatto sì che si sperimentassero stati di solitudine, ansia, stress e, nei casi peggiori, di depressione. Le restrizioni sono state percepite come una minaccia per le relazioni sociali, le quali, sono cambiate radicalmente.
I numeri
Ma se il presente è difficile, il futuro è pressoché impossibile da immaginare. Se diverse nuove abitudini che la pandemia ha portato sono state positive e sono diventate parte della quotidianità, da un altro lato, in questo periodo in continua evoluzione può diventare difficile immaginare progetti per il futuro o rendere incerto ciò che si era già pianificato. I viaggi rimandati, le coppie che hanno difficoltà a progettare la loro vita insieme, le varie attività “messe in pausa”. Tutto questo incide moltissimo sia sulla vita personale sia sul percorso scolastico, formativo e lavorativo di ognuno prima e della collettività poi. Ed è proprio il lavoro uno dei settori maggiormente colpiti dalla pandemia: l’elaborazione Openpolis su dati Istat di febbraio e marzo 2020, mette in luce il calo dell’occupazione totale dell’1,8% e di quella dell’occupazione nella popolazione tra i 15 e i 24 anni del 2,6%. Tali percentuali mettono in luce una situazione molto difficile per i giovani: se nel 2006, la percentuale di persone tra i 16 e i 34 anni che vivevano in povertà assoluta si attestava intorno al 2%, nel 2020 è arrivata a sfiorare il 12%.
Via di casa
La situazione di povertà assoluta rende molto ardua la vita dei giovani italiani, i quali vedono i propri progetti ridimensionarsi e i dati dell’indagine Eurostat sull’età media in cui si smette di vivere coi genitori è allarmante: i giovani italiani lasciano casa, in media, a 30,2 anni a fronte di una media EU di 26,4 anni. Peggio di noi solo Croazia (32,4) e Montenegro (33,3). Italiani mammoni? Forse, ma non solo. A determinare il divario, infatti, sono soprattutto le scarse politiche di welfare per i giovani e le opportunità offerte dal mercato del lavoro. Gli Stati in cui i giovani lasciano la casa dei genitori intorno ai 20 anni - se non prima come nel caso dei Paesi scandinavi - sono caratterizzati da quella che il professore di sociologia Maurizio Ferrera definisce come una politica familiare “capacitante”, vale a dire una politica che aiuta i giovani a partecipare al mercato del lavoro, ad avere un reddito adeguato che consenta loro di mantenersi e crearsi una famiglia. Tra questi paesi rientrano Francia e Germania, dove i giovani si svincolano dai genitori intorno ai 23 anni e mezzo. Per i giovani italiani uno dei maggiori problemi è proprio inserirsi nel mercato del lavoro, come suggerisce l’ultimo rapporto Istat sui i giovani che non studiano e non lavorano.
Il problema dei neet
I cosiddetti Neet (giovani che non studiano né lavorano) in Italia sono circa 2 milioni, pari al 22,2% dei giovani compresi tra i 15 e i 29 anni. Nella categoria rientrano sia il neolaureato «con alte potenzialità e motivazioni», che sta cercando un lavoro in linea con le proprie aspettative, sia il giovane che ha abbandonato presto gli studi, «con basso capitale sociale e forte esposizione alla demotivazione». La parola Neet spesso, infatti, non dà conto delle diverse situazioni che portano un giovane a essere disoccupato, alla ricerca di un lavoro o peggio rassegnato.