L’attività lavorativa lega gli esseri umani tra di loro e alla vita, come ben ci mostra la Costituzione che, attraverso norme cardine, riconosce ai soggetti disabili i medesimi diritti di tutti i cittadini. Con Marco Ottocento, presidente della Fondazione Più di un Sogno entriamo nell’argomento trattando gli aspetti formali e sostanziali del rapporto lavorativo coi disabili, spesso vittime di una società assistenzialista, visti come eterni bambini. Il lavoro, come si vedrà, apre la persona a nuove prospettive di vita autonoma grazie all’assunzione di un ruolo.
Il 69% dei disabili non trova lavoro, cosa ne pensa?
Una persona che non lavora, dalla nostra società, è considerata non facente parte della comunità. Per un disabile intellettivo l’assunzione di un ruolo dà più opportunità, anche all’interno della famiglia, che spesso non prevede raggiunga una vita propria. È essenziale anche per l’adultità, cioè un disabile intellettivo fa fatica a diventare adulto, è sempre tenuto bambino anche nella coscienza dei genitori, il lavoro lo rende più autonomo. Non lavorare rende malato il sistema che è attorno al disabile. Ci vuole tanto lavoro comunitario. Un obbligo di legge non può fare tutto. La 68/99 è una buona legge, però è organizzata col concetto dell’obbligo d’impresa nell’assunzione di persone. Bisogna andare oltre l’obbligo: ci vuole una famiglia che voglia questo, perché alcune preferiscono l’assistenzialismo rispetto all’assunzione del rischio di un ragazzo lavoratore; ci vuole un terzo settore che non deve pensare all’importanza del servizio, ma all’importanza della persona. Finita la scuola, non deve esserci il centro diurno quale esclusione dal mondo del lavoro, essi diventano la sostituzione dell’ente pubblico. Serve un terzo settore che lavori con le imprese per trasformare il concetto di obbligo in opportunità; ci vuole l’impresa che non si senta obbligata ad assumere, ma che sia più inclusiva.
Quanto ci vuole ad inserire un disabile sul lavoro?
Non c’è una risposta precisa, alcuni non potranno mai avere un lavoro come noi lo concepiamo. Se le difficoltà di un disabile intellettivo sono molto alte, è probabile che sia solo occupato, senza un lavoro retribuito. Ad esempio Sara, mia figlia, è la ragazza più complessa della nostra Fondazione, si occupa di piccole attività che sono inserite in un circuito economico, ma non prevedono una produttività. Lei la mattina parte soddisfatta, va nell’orto a coltivare delle spezie e le impacchetta coi suoi tempi. E’ un’occupazione e non un lavoro come noi lo concepiamo, abbiamo dovuto costruirla noi questo tipo di situazione, adatta alla ragazza. Ci sono ragazzi con difficoltà inferiori che, finita la scuola, con un po’ di formazione per “diventare lavoratore”, trovano un lavoro retribuito. L’importante è che il terzo settore ed il mondo delle imprese, siano pronti ad accogliere questi ragazzi, che siano pronte le comunità, perché anche le imprese sono delle comunità. Non devono puntare solo all’efficienza e alla massimizzazione del profitto, perché i ragazzi disabili intellettivi non sono produttivi. Il tempo è importantissimo per tutti, ma qua è più importante pensare alla buona inclusione più che di quanto tempo ci vuole. Noi consideriamo l’utilità della fragilità perché tutti possiamo essere fragili. L’interdipendenza la pandemia ce l’ha spiegata in maniera perfetta, non c’è una questione di dipendenza mia o di un ragazzo disabile, abbiamo tutti bisogno l’uno dell’altro, abbiamo bisogno del “noi” e non dell’ “io”.