Da qualche tempo a questa parte stiamo assistendo a un’ondata di mutamenti morali ed etici della nostra società. Cambiamenti che mettono in risalto le differenze per farne bandiere di sfoggio e di unicità, ma come ogni cambiamento si trovano a doversi scontrare ineluttabilmente contro forze opposte e contrarie. Con non poca presunzione abbiamo voluto unire tutti questi complessi cambiamenti sotto una facile definizione: politicamente corretto. Così da banalizzare il tutto, abbastanza da permettere a chiunque di dire la propria opinione in merito. Non importa se è un opinione vomitata o pensata, l’importante è che sia espressa.
Le origini
Le prime forme di politically correct hanno origine nelle università americane, agli inizi degli anni 30 ma l’esplosione effettiva si ha negli anni 70-80. Si cercava di eliminare tutte quelle espressioni di senso dispregiativo che si usavano per rivolgersi a una determinata etnia o orientamento sessuale: niggers è diventato afro americans e faggot è diventato gay. Questa ricerca di miglioramento del linguaggio e dei comportamenti è il lascito dei potenti moti sociali avvenuti negli anni precedenti, come gli eventi del '69 del bar “Stonewall” dove ci furono violenti scontri tra la polizia e la comunità omosessuale, scontri che portarono alla nascita di quello che noi oggi conosciamo come Gay Pride. O anche come tutto il movimento legato alla lotta per i diritti civili degli afroamericani.
I problemi
L'equazione sembrerebbe essere intuibile dunque: si mettono in discussione i valori negativi vigenti e si cambiano le azioni e il linguaggio al fine di abbandonarli definitivamente. Ma allora cosa sta andando storto in questa “semplice” operazione? Che cosa ci disturba e infastidisce? Probabilmente è l’atto di cambiare che ci logora. Cambiare significherebbe accettare il fatto che fino a quel momento abbiamo sbagliato, significherebbe ammettere che eravamo nel torto. Un altro problema deriva, non dalla sbaglio, ma dal non riuscire a riconoscerlo: sentirci dire che stiamo facendo, o dicendo, qualcosa che sta offendendo un’altra persona, senza che neanche ci accorgiamo del come quella persona si possa offendere, ci avvilisce e ci fa sentire irrispettosi o perfino cattivi. Per questo ci nascondiamo dietro frasi che sminuiscono l’offesa, o peggio che sminuiscono il dolore che abbiamo provocato. L’esempio perfetto di ciò è il tanto discusso fenomeno del cat-calling che ha generato indignazioni di massa in tutta Italia, indignazione nata dal non riuscire a comprendere la differenza tra “complimento” e molestia, e in uno stato civile è importante sapere questa distinzione. Credere che siano semplici apprezzamenti non ci legittima in nessuno modo a esternarli, anche se ci raccontiamo che sono fatti in buona fede, e non regge molto l’idea che se lo facessero a noi ne saremmo felici, purtroppo o per fortuna noi non siamo tutti.
Gli esempi nella TV e nella moda
Spesso le argomentazioni che vanno contro il politicamente corretto vengono espresse come un sentimento di pancia, come uno sbuffo accompagnato da un “non si può più dire niente o scherzare su nulla”, ma il problema è che non ci si domanda mai se quello che stiamo dicendo potrebbe o meno recare danni a qualcuno, l’importante è rubare una risata piuttosto che dimostrare rispetto. È una questione di comodità: è molto più facile teorizzare una “dittatura del politicamente corretto” che prestare attenzione al proprio linguaggio al fine di non offendere nessuno.Come si è visto recentemente con il programma Striscia La Notizia, dove hanno mandato in onda un servizio nel quale si parodiava una politica di sinistra, usando incessantemente la parola “negro”. Mentre nel secondo caso, quello più recente, la Hunziker e Scotti hanno fatto gli occhi a mandorla per imitare delle persone cinesi. Indubbiamente l’intento del programma non era l’offesa ma questo non scusa l’accaduto. È proprio dai mezzi di comunicazione e dal loro linguaggio che deve partire la riforma del nostro parlare e del nostro esprimersi. Esempio di ciò è la campagna pubblicitaria di Zalando, che dimostra di utilizzare un linguaggio inclusivo e non esclusivo. A differenza delle altre pubblicità fa vedere che a vestirsi sono anche le persone comuni, e non solo i modelli di bellezza idealizzata. Il punto cardine del politically correct sta nel normalizzare le differenze, cercando di combattere e destrutturare l’immaginario comune del bello o brutto, bianco o nero, grasso o magro, buono o cattivo, con la speranza che, magari un giorno, parole e azione non siano così lesive quanto lo sono ora.