9 marzo 2020: il premier Giuseppe Conte dichiara lo stato di emergenza in tutta Italia a causa della diffusione del virus SARS-Cov. Nessuno sapeva cosa stesse realmente accadendo. Nel giro di poche ore ognuno si preparava come meglio credeva a mettere in pausa la propria vita, gli impiegati prendevano tutte le scartoffie e il pc per proseguire il lavoro da casa, le maestre dicevano ai bambini di portare con loro i quaderni in modo da continuare ad esercitarsi anche da soli, gli studenti del liceo e delle Università si chiamavano increduli e forse anche contenti all’idea di avere due settimane di stacco dalla solita routine. Peccato che quelle che dovevano essere solo due settimane ben presto diventarono mesi. Tutte le giornate iniziavano e finivano allo stesso modo, guardando i media esporre la situazione epidemiologica del paese sulla base di dati: numero di contagi giornalieri, numero di terapie intensive occupate, numero di morti. Tuttavia dietro a tutti quei numeri vi erano le persone, anime pervase da un senso di apatia e di sconforto per un modo di vivere che non si poteva più definire tale. Negli ultimi dodici mesi le abbiamo provate tutte per combattere il covid: abbiamo confidato nel caldo estivo, poi abbiamo provato a conviverci facendo salire i contagi a cifre mai viste dall’inizio dell’epidemia, in seguito sono state prese misure di contenimento differenti a seconda della situazione epidemiologica nelle regioni, infine il lockdown durante le feste natalizie sembrava il momento di spannung di una storia che peggio di così non poteva andare e invece nemmeno il desiderio espresso a mezzanotte il 31 dicembre, probabilmente identico per ogni persona di questo Paese, ha fatto sì che le cose migliorassero veramente.
Ad un anno esatto dall’inizio di quell’incubo, nel momento in cui molti di noi avevano cominciato a dimenticare quel senso di stretta allo stomaco all’idea di dover passare la propria giornata confinati in quattro mura ci siamo ritrovati nuovamente di fronte alla stessa condizione. Ad un anno di distanza la tortura non si chiama lockdown ma zona rossa: il nome è diverso, la sostanza è sempre la stessa. Questa volta sarà più difficile, perché siamo maggiormente provati sia mentalmente che fisicamente e soprattutto consapevoli di ciò a cui andiamo incontro, ancora una volta. Lo scoppio di questa bomba che ci ha travolto tutti evidenzia e ci insegna ogni giorno di più quanto le nostre vite siano precarie e di quanto significato dovremmo dare ad ogni momento che abbiamo la possibilità di vivere. Nel ritmo frenetico delle nostre giornate siamo sopraffatti da tutto ciò che ci accade e diamo un’eccessiva attenzione al singolo evento negativo o fastidioso che ci sfiora dimenticando il quadro generale, la cosa più preziosa che abbiamo: scegliere come poter impiegare il nostro tempo, scegliere a chi e a cosa dedicare premure e con quali modalità. Il covid forse più di tutto ci ha tolto proprio questo, la libertà di poter decidere dove essere, con chi essere e quando esserci.