Ci sono due giovani pesci che nuotano uno vicino all’altro e incontrano un pesce più anziano che, nuotando in direzione opposta, fa loro un cenno di saluto e poi dice “Buongiorno ragazzi. Com’è l’acqua?”. I due giovani pesci continuano a nuotare per un po’, e poi uno dei due guarda l’altro e gli chiede “ma cosa diavolo è l’acqua?”.
Insegnare a pensare
"Due pesci nuotano uno vicino all'altro", così esordisce lo scrittore, saggista e accademico statunitense David Foster Wallace durante una cerimonia delle lauree al Kenyon college nel 2005. "Le più ovvie e importanti realtà sono quelle più difficili da vedere e di cui parlare" è il messaggio che cerca di trasmettere ai laurendi. È proprio da qui, spiega Wallace, che deriva l'importanza che l'educazione umanistica ha non tanto “nel fornire delle conoscenze”, quanto “nell’insegnare a pensare”.
Spesso ciò che ci manca infatti non sono gli impulsi, le conoscenze e gli spunti, ma come recepirli, come elaborarli, come sfruttare le nostre conoscenze in modo adeguato. In una società dove gli schermi stanno passo dopo passo sostituendo le pagine e dove gli ingranaggi sostituiscono le persone, siamo bombardati ventiquattro ore su ventiquattro da stimoli; che possono essere una semplice notifica di Instagram, una notizia del telegiornale, un odore, una sensazione, un programma radiofonico, un cartellone pubblicitario e mille altri.
Più questi stimoli si fanno vivi e invadenti nella nostra vita, più è difficile distinguere quelli utili da quelli superflui, finendo così per rifiutarli completamente o per sovraccaricarci di nozioni che non sapremo mai come mettere a frutto. E così finiamo per essere sazi o completamente svuotati da stimoli effimeri. L'educazione umanistica che non ci insegna di sviluppare gli input, di filtrarli e di imparare a riconoscerli e distinguerli, diventa l'ennesimo ostacolo, l'ennesima conoscenza accantonata e poi dimenticata.
L'urgenza della nostra verità
"Ad un bar siedono due uomini” torna a spiegare Wallace “Uno è credente, l’altro è ateo, stanno discutendo sull’esistenza di Dio; e il primo è fermamente convinto della sua esistenza almeno quanto il secondo è convinto che questo non esista affatto". Ognuno possiede quella che viene definita "verità personale", che non ha nulla a che vedere con il proprio credo spirituale, la propria religione, le credenze e le supposizioni, ma con la consapevolezza che ognuno di noi ha che la propria esia la verità assoluta, imprescindibile e superiore a quella degli altri.
Che si parli di religione è solo un escamotage per rendere il tutto di comprensione più facile, ma questa "verità" che tutti abbiamo è nascosta in ogni nostra parola e gesto. È nascosta nelle frasi come: "Abbiamo sempre fatto così" che servono per giustificarsi per azioni che in fondo sappiamo essere sbagliate, ma che siamo troppo arroganti e meschini per ammettere. È nascosta nella finzione di un mondo utopico dove ricchi e poveri, buoni e cattivi non esistono, ma solo persone di egual valore ed egual valori. È nascosta nel non accettare che per quanto i nostri problemi a volte sembrino insormontabili e di primaria urgenza, ci sarà sempre qualcuno accanto a noi con un problema di reale primaria urgenza che potremmo aiutare, ma che non aiuteremo; poichè fare ciò significherebbe oltraggiare la convinzione dell'urgenza del nostro problema rispetto al suo.
Riconoscere l'altro
A questo punto ci viene fornito un terzo esempio: Dopo aver lavorato per dieci ore, uno stanco e stressato neolaurealto vuole solamente dirigersi a casa, godersi una bella cenetta e andare a dormire; per poi svegliarsi presto il giorno dopo e ricominciare tutto da capo. Ma, a questo punto, ricordandosi di non avere nulla da mangiare in casa, si dirige al supermercato. Dopo aver affrontato l'ingorgo del traffico, la folla di gente con esattamente il suo stesso scopo, le corsie caotiche, l'inconveniente delle casse piene, la cassiera agitata e stressata almeno quanto lui, il parcheggio affollato e di nuovo il traffico serale, il giovane laureato arriva a casa. Stanco, provato dalla lunga giornata di lavoro, innervosito dalle troppe persone e logorato dal tragitto dal supermercato a casa, il giovane ha ormai perso la voglia di mangiare. "La NOSTRA fame, la NOSTRA stanchezza e il NOSTRO desiderio di andarcene a casa, ci faranno sembrare che ogni altra persona al mondo stia lì ad ostacolarci". E chi sono poi queste persone che ci ostacolano? Non sono forse quelli che noi consideriamo "altri"? Ma in fondo "l'altro", che mal tolleriamo o che non accettiamo affatto, è il signore che ci ha aiutato a caricare le buste troppo pesanti in auto, l'anziana signora del piano di sopra che la domenica ci lascia la crostata sul davanzale, magari una moglie che ha appena perso il marito dopo anni di sofferenza o un padre che ha perso il figlio; non è che una persona probabilmente con i nostri stessi interessi e le nostre stesse frustrazioni. Noi stessi potremmo essere "l'altro" di qualcuno, magari di quell'uomo che tanto abbiamo fatto innervosire accaparrandoci l'ultimo barattolo di fagioli sullo scaffale, o quello che abbiamo urtato uscendo frettolosamente da un negozio la settimana prima.
Come dice Wallace “È straordinariamente difficile rimanere coscienti e consapevoli nel mondo adulto, in ogni momento". Ma quando capiremo che noi e l'acqua che ci circonda non siamo poi così differenti, forse sarà un po' più facile rimanere a galla. In fondo, per quanto sembri incomprensibile, l'acqua siamo noi.