Venti di rivolta, violenti scontri in piazza, proteste dilaganti. E sullo sfondo un mondo che brucia. Se gli avvenimenti dell’anno appena trascorso fossero un film, di certo le prime immagini avrebbero come protagonista il fuoco: la vampa delle molotov lanciate per strada, da Hong Kong al Cile, ma anche le fiamme che divorano le foreste in Australia, Brasile, Africa.
Invece, siamo costretti a constatare che purtroppo non ci troviamo sul set del nuovo remake di Mad Max. Lo scenario globale che si delinea davanti ai nostri occhi ad inizio 2020 è del tutto reale e tangibile, e proprio per questo motivo molto più complicato da spiegare e comprendere. La sensazione prevalente che si prova di fronte a questo quadro desolante può essere espressa con le parole di Ray Bradbury, scrittore e sceneggiatore fantascientifico, uno che di alte temperature se ne intendeva: “Qualcosa di sinistro sta per accadere”.
Ma cosa? Ci troviamo infatti di fronte ad un articolato mosaico di contestazioni, nate per motivi diversi in Paesi lontanissimi tra loro, non solo geograficamente ma anche in termini di cultura, storia geopolitica e forma di governo. Trovare un unico denominatore comune tra di esse, che ne giustifichi la simultaneità e ci rassicuri sulla loro evoluzione, risulta difficile se non pretestuoso. Allo stesso tempo, rischia di essere non meno miope (e pericoloso) rifiutare a priori la possibilità di considerare il fenomeno nella sua universalità, derubricandone i singoli episodi a moti privi di ogni collegamento.
Se è vero infatti che le diverse situazioni in Francia, Spagna, Cile, Venezuela, Egitto, Libano, Iraq, Iran e Hong Kong presentano profonde differenze, una serie di fili rossi sembra percorrerle tutte, come linee sullo schermo di un solo sismografo impazzito. Diventa quindi necessario osservare le proteste da vicino, per poterne enucleare i principali elementi di similitudine.
In primo luogo, le contestazioni possono essere comparate alla luce della loro composizione demografica: in tutto il mondo a guidare la carica sono perlopiù giovani e lavoratori appartenenti al ceto medio, entrambi settori sociali sui quali l’onda lunga della crisi del 2008 ha prodotto (e continua a produrre) le conseguenze più catastrofiche.
In seconda istanza, le proteste sembrano rifarsi ad un medesimo modello, particolarmente evidente nelle manifestazioni francesi, cilene e venezuelane. Nate in risposta a uno specifico provvedimento o a una particolare emergenza sociale (di volta in volta le tasse sulla benzina, l’aumento del costo per i biglietti della metro o la corruzione), hanno coinvolto con il tempo fasce sempre più ampie di popolazione.
In altre parole, a partire da un casus belli contingente sono diventate espressione di un malcontento generalizzato, come tutti i moti spontanei. Nonostante i dubbi sull’effettiva composizione delle fila dei gilet gialli, o sulle ingerenze dei gruppi di opposizione in Venezuela, è infatti nella gran parte dei casi assente un indirizzo politico definito alla base delle proteste, che le infuochi e le indirizzi dall’alto.
Parimenti, sindacati ed enti affini si sono ben guardati dal far comparire le loro bandiere tra la folla di manifestanti che si è riversata nelle strade a Parigi o a Santiago, a rimarcare quanto enorme sia oggi il divario fra popolo e le istituzioni che dovrebbero rappresentarlo direttamente.
Paradossalmente, proprio questa carenza di comunicazione tra corpi sociali ha fornito ai movimenti un’arma molto potente, il terzo elemento comune su cui ci si intende soffermare: indipendentemente dal contesto, in tutto il globo l’utilizzo di Internet ha giocato un ruolo fondamentale nel promuovere e perpetuare sommosse e agitazioni.
È proprio grazie alla rete se queste proteste non hanno bisogno di leader che comunichino con l’esterno, e i manifestanti possono impiegare siti ed espedienti sconosciuti al governo. In questo senso, il caso catalano ha fatto scuola: tutt’oggi la polizia non è ancora riuscita a penetrare nei gruppi Telegram o all’interno dell’app usata per organizzare le proteste a Barcellona.
I nativi digitali hanno trovato lo strumento perfetto per mantenere la decentralizzazione, evitando quindi di attirare l’attenzione dei governi su di un singolo individuo che possa essere ucciso o imprigionato per far crollare l’intero movimento. “Be water”, come direbbero a Hong Kong.
Infine, una rilevante analogia si rinviene nelle pretese avanzate dai partecipanti ai cortei. Se il ceto medio protesta per le proprie aspettative frustrate e il suo benessere scomparso, i giovani scendono in piazza per rivendicare ciò che non hanno mai avuto: occupazione e mobilità sociale, in una parola una qualche forma di speranza.
È questo il trait d’union più peculiare tra quelli sino ad ora evidenziati: gli indici convenzionali con i quali gli stati moderni erano soliti misurare il benessere dei loro cittadini si sono dimostrati inadeguati ad intercettare un malessere sistemico.
Ora lo stesso malessere non serpeggia più soltanto in nazioni economicamente arretrate o politicamente fragili (come quelle del Medio Oriente, in cui i tumulti sono ormai una costante storica), ma diffonde la sua infezione in città apparentemente ricche e libere (quali Parigi, Barcellona o Hong Kong), propagandosi appunto come un incendio tra intere generazioni, a qualsiasi latitudine.
Ovunque si guardi il giocattolone del neoliberismo pare essersi inceppato, e si ha la percezione che le formule politiche utilizzate fino ad oggi stiano esaurendo la loro efficacia (qualora questa sia mai esistita).
A questo proposito, è assai significativo notare come il dissenso coagulatosi intorno ad una specifica battaglia, non si sia disperso nemmeno quando le alte sfere hanno soddisfatto le richieste dei cittadini: in Libano ad esempio, le persone sono in strada dalla metà di ottobre e non si sono fermate nemmeno dopo l’approvazione di alcune riforme e le dimissioni del primo ministro. In molti altri casi si va avanti malgrado una sanguinosa repressione, e gli oltre 300 morti in Iraq ne sono una chiara dimostrazione.
Le somiglianze tra i moti esaminate fino ad ora sembrano dunque puntare tutte nella medesima direzione, e celare un identico monito: quelli che vediamo bruciare all’orizzonte, dalla periferia del nostro Paese a forma di scarpa, non sono focolai isolati. Sono piuttosto eruzioni dello stesso magma che, dopo aver covato per lungo tempo sottoterra, ora emerge con potenza dirompente attraverso le crepe del nostro sistema.
“We didn't start the fire / It was always burning / Since the world's been turning”, cantava Billy Joel sul finire del secolo scorso. Ora che quel fuoco divampa e la nostra classe dirigente si riconosce più nel ruolo di incendiario che in quello di pompiere, possiamo solo sperare di essere ancora qui per testimoniare cosa rinascerà dalle ceneri.