Le disuguaglianze sociali nel mondo, risalenti a migliaia di anni fa, sono arrivate al limite della sopportabilità. Con il 12,2% di working poor nel 2017, l’Italia si classifica al quarto posto dopo Romania, Spagna e Grecia tra le nazioni europee con più lavoratori poveri, mentre il 5% più ricco degli italiani è titolare di quasi il 40% della ricchezza nazionale netta e la popolazione inizia a percepire sempre più il peso della disparità collettiva. Se 11 mila anni fa la ricchezza era dovuta ai campi e ai grandi animali addomesticati come cavalli e buoi che si possedevano, oggi si parla di differenze sul piano economico, di genere, educative e territoriali di una popolazione. Ne abbiamo parlato con Mauro Palumbo, coordinatore del dottorato di Scienze Sociali dell’Università degli Studi di Genova.
«Con il rapido invecchiare del popolo italiano, la scarsa natalità e la migrazione di giovani all’estero in cerca di lavoro, c’è poco da sorprendersi sul fatto che la città di Genova sia stata nominata come città più vecchia d’Europa», ci dice Palumbo. E prosegue: «Con una percentuale di over 70 ormai così vasta, la differenza tra anziani indipendenti e anziani che non sono in grado di provvedere a sé stessi diventa sempre più visibile: una famiglia con anziani in condizioni di non autosufficienza o disabilità è chiaramente più in difficoltà di una famiglia con anziani che riescono ad aiutare figli e nipoti, e non solo economicamente. E poi c’è un punto importante: l’Italia risulta tra i paesi con una forte influenza diretta delle origini familiari sul successo occupazionale dei figli ed in cui la distribuzione del reddito si discosta maggiormente da quella che risponde a criteri di uguaglianza di opportunità e di libertà dalla povertà».
Se il dato scolastico anticipa il destino occupazionale, una volta arrivati sul lavoro viene accentuata una differenza tra chi ha un lavoro stabile e chi uno precario e se si è donne: oltre ad avere un tasso occupazionale inferiore di 19,8 punti nel 2019, spesso le donne vengono anche discriminate nel salario, nell’accesso alle posizioni di vertice e nella specializzazione in ambiti scientifici e tecnologici.
Da non dimenticare anche come territorio, genere, età, condizione migratoria, istruzione e lavoro si sovrappongano, creando differenze territoriali importanti che si sommano o accentuano le precedenti.
Ma cosa ci sta portando a percepire sempre di più queste disuguaglianze?
«Il vero problema di qualsiasi società e di qualsiasi sistema - Mauro Palumbo - risiede nel dosaggio dell’uguaglianza di condizioni e opportunità: da un lato deve garantire condizioni minime a tutti i suoi membri e dall’altro deve garantire delle opportunità che siano sufficientemente uguali per tutti».
Dove manca questo dosaggio si inizia ad avvertire la disuguaglianza. Normalmente, questa percezione viene ignorata, giustificata o sopportata perché si ha ancora l’idea che sia assolutamente legittima o si pensa che si possa arrivare ad ottenere il benessere che al momento non si possiede. Ciò che, invece, spezza la corda di giustificazioni è la realizzazione del fatto che le disuguaglianze che si stanno subendo siano illegittime o siano ereditarie. «Questo è anche uno dei motivi per il quale oggi c’è una scontentezza così diffusa poiché la società non migliora e la mobilità sociale è quasi nulla».
Così ci si ritrova ad osservare un continuo peggioramento della situazione e quindi un contesto di disagio permanente e non più transitorio cosicché «quello che si sopportava ieri non si sopporta più oggi».
E che soluzioni potremmo mettere appunto per aiutare chi è vittima di queste disuguaglianze?
Certamente non è facile risolvere un problema così profondamente radicato, ma «interventi personalizzati, servizi più integrati di volontariato, politiche sociali non generalizzate e pressione sul governo seguiti da una cittadinanza attiva e una capacità propositiva nei confronti della politica» potrebbero quantomeno alleviare la situazione.