Il Quarto Forum Internazionale dei Popoli Indigeni è stato ospitato dal Fondo Internazionale per lo Sviluppo Agricolo (IFAD) a Roma il 12 e il 13 febbraio scorsi. L’obiettivo: promuovere l’utilizzo del sapere e dell’innovazione delle popolazioni indigene per creare resilienza ai cambiamenti climatici e sviluppo sostenibile. Un processo nato otto anni fa che ha cercato di sensibilizzare governi e istituzioni sui diritti dei popoli indigeni. Nella due giorni i partecipanti si sono focalizzati su:
- Rafforzare il ruolo dei popoli indigeni quali custodi della maggior parte della biodiversità del pianeta.
- Incrementare gli investimenti per supportare le organizzazioni indigene, le istituzioni e le comunità indigene concentrandosi soprattutto sulle conoscenze dei giovani e delle donne.
- Supportare i popoli indigeni nel mettere in sicurezza le loro terre, i territori e le risorse, attraverso un lavoro di mappatura e difesa.
Abbiamo chiesto a Mattia Prayer Galletti, Responsabile per i popoli indigeni e le questioni tribali dell’IFAD un giudizio sui lavori.
Quali sono le sue sensazioni a Forum iniziato?
Esaltanti. Vantiamo quarantuno delegati da tutte le regioni del mondo. Questi leader rappresentano le esigenze e i diritti delle popolazioni indigene, con una grande consapevolezza delle questioni globali.
Tre obiettivi di questo Forum?
Condividere esperienze e creare network. Avere un feedback su quello che i nostri programmi stanno facendo nel mondo, perché è importante ascoltare le organizzazioni coinvolte. Infine sviluppare insieme strategie che possano rivelarsi efficaci nel momento di dialogare coi governi e le organizzazioni su tutti i livelli. I nostri programmi partono da una strategia Paese, ma guardiamo a livello globale.
Il successo e il fallimento più grande degli ultimi anni?
Un successo è stato guadagnare la stima delle popolazioni indigene. Il forum, inteso come processo sistematico di dialogo e non come singolo evento, è uno strumento prezioso. A livello internazionale si indica l’ come agenzia modello per le altre. Per quanto riguarda i fallimenti cito un episodio di qualche anno fa, quand’ero responsabile dei rapporti in Indonesia. Ero nel Borneo orientale, ho proposto un disegno complesso dopo diverse riunioni, ma il progetto non è partito per via di questioni istituzionali col governo locale. Aver costruito delle aspettative senza rispettarle è una cicatrice che ancora mi porto addosso.
Cosa consiglierebbe ai giovani per immergersi nella tematica dello sviluppo sostenibile?
È un tema caro a tutti noi, soprattutto alle giovani generazioni. I modelli attuali e in vigore da decenni non sono sostenibili, quindi è necessario ricostruire. Serve una vita in armonia con il rispetto della natura e delle risorse naturali. Questa è la via da seguire. Bisogna ribaltare la concezione del fatto che le culture ancestrali dei popoli indigeni guardino solo al passato. Sono stereotipi da smentire. Quando abbiamo culture che si preoccupano delle generazioni future sono direttamente proiettate nella modernità.