L’Europa fondata sul rispetto
A colloquio con Pietro Bartolo, il medico di Lampedusa e neo eurodeputato
Roberto Bertoni | 30 maggio 2019

Pietro Bartolo, il medico di Lampedusa, uno dei protagonisti di Fuocoammare, è stato appena eletto europarlamentare. Ci racconta la sua idea di solidarietà, d’accoglienza, di umanità e d’Europa. E i vari concetti, nelle sue riflessioni, si prendono per mano. 

 

Come è nata la sua candidatura? Quando ha avvertito il bisogno di partecipare al progetto del Partito Democratico per l’Europa?

È nata quando mi sono reso conto che era necessario contribuire attivamente a provare a fermare questa deriva populista, disumana e pericolosa. Serve una politica con la P maiuscola: autentica, nobile, estremamente diversa da quella che ci è stata presentata finora. Non volevo più sentirmi impotente e così ho aderito a un partito che si chiama Democrazia Solidale e che, a queste Europee, è confluito nel PD, essendo ospitato nelle sue liste. È un partito che ha fatto della solidarietà e dell’accoglienza ai migranti le proprie bandiere, dunque l’ho sentito vicino. L’Europa si deve fondare sulla libera circolazione delle persone, sui diritti umani, sull’accoglienza e nessuno può permettersi di demolirla o di metterla in discussione. 

 

Nel suo libro Le stelle di Lampedusa, lei racconta la storia di Anila e la sua notte speciale. Chi è Anila?

È una bambina che è partita dalla Nigeria con la mamma e due fratellini. Una volta arrivata in Niger, la madre è stata costretta a lasciarli a degli anziani per partire alla volta dell’Europa, avendo capito che non poteva portarli con sé. Quando, dopo alcuni anni, la nonna, che non era la sua vera nonna ma ormai era come se lo fosse, è morta, il marito non ce l’ha fatta più a mantenerla e così Anila è andata a vivere per strada, di stenti. A otto anni Anila ha capito di dover diventare adulta e ha intrapreso il viaggio che l’ha portata, dopo mille traversie, fin da noi.

 

Adulta a otto anni?

Esattamente. Noi a quell’età i nostri figli li accompagniamo a scuola e non li lasciamo da soli neanche un secondo. Lei invece, da sola, è partita, rischiando di morire, subendo innumerevoli traumi e dovendo affrontare le terribili violenze che caratterizzano i lager libici. È partita, ha fatto naufragio, è tornata indietro ed è partita una seconda volta, fino a quando finalmente ce l’ha fatta. Io l’ho incontrata a Lampedusa, su una motovedetta della Guardia di finanza, rannicchiata sotto a una tenda, e ho subito capito che era da sola. Era sporca, aveva tutti i capelli arruffati, aveva delle ustioni dovute alla miscela della benzina e dell’acqua salata, per fortuna non gravi; al che, l’ho portata nel mio ambulatorio e, quando ci siamo presi cura di lei, lavandola e vestendola con abiti puliti, era una principessa, davvero bellissima. Le ho chiesto come mai fosse venuta da sola e lei mi ha risposto che voleva ritrovare la mamma. In quel momento, Anila aveva nove anni e mezzo, quel viaggio terribile era durato un anno e mezzo. Le ho chiesto dove fosse la sua mamma e lei, con candore, mi ha risposto: “In Europa”. Già, ma dove in Europa? Non sapeva nemmeno cosa fosse l’Europa.

 

E per lei cos’è l’Europa? Quale Europa vorrebbe lasciare in eredità ad Anila?

Anila era un gigante. Ha ritrovato la mamma, ha ricostruito la sua famiglia, ce l’ha fatta e ha sconfitto persino quel mostro che è la nostra burocrazia. Io vorrei costruire un’Europa più umana. 

Lei racconta che il piatto in cui sua madre eccelleva era il cous cous. Si sente un po’ africano?

Certo! Tutta la Sicilia ha avuto rapporti strettissimi con il mondo arabo. Noi siamo il frutto di un incontro di popoli e di culture che si riflette persino nei nostri cognomi. Abbiamo sempre vissuto, almeno a Lampedusa, in un clima di fratellanza, anche ai tempi delle primavere arabe.

Cosa ricorda del 3 ottobre 2013?

Sto male. Quel giorno sono morte 368 persone in un naufragio e io ho dovuto compiere altrettante ispezioni cadaveriche. Non lo auguro a nessuno. Spesso di notte ho gli incubi ripensando a tutti quei bambini, alle treccine, ai vestitini. Le mamme li avevano preparati all’appuntamento con il mondo nuovo. Che colpa avevano? Perché hanno fatto quella fine? Non possiamo continuare a impedire loro di arrivare regolarmente in Europa, attraverso i corridoi umanitari, come hanno fatto la Chiesa valdese, Sant’Egidio, il Papa. Perché non lo può fare il governo italiano? 

 

Come sostiene lei, siamo “figli dello stesso mare”.

Siamo tutti cittadini del mondo e abbiamo tutti il diritto di vivere dignitosamente e liberamente, senza padroni. Ci tengo a sottolineare che nessun governante è padrone del proprio popolo. Quanto agli africani, avendoli costretti noi a fuggire dalla disperazione, abbiamo adesso il dovere morale di accoglierli.