Da un lato la digitalizzazione ha consentito alle donne di emergere, dall’uso dei testi rap in tribunale invita all’autocensura
Il periodo storico attuale è intrinsecamente contraddittorio, almeno per quanto riguarda la libertà di espressione nell’hiphop. Non è un caso infatti che il primo decennio del 2000 abbia aperto la strada a un numero quantomeno dignitoso di rapper donne dopo l’embargo dei primi Duemila – un vero disastro che aveva colpito perfino i Grammys, lasciando vuoto il trono per la best female rap solo performance per due anni dopo la sua introduzione. Nicki Minaj, Cardi B, Megan Thee Stallion, Rico Nasty, Ice Spice hanno preso il testimone passato da Lil’ Kim, Missy Elliott, Queen Latifah, Foxy Brown, Salt-N-Pepa, Lauryn Hill – con un ventennio di ritardo. Per un periodo che va più o meno dalla fine dei Novanta all’inizio del 2010 infatti le major hanno ridotto drasticamente le quote rosa, condannando di fatto il mondo del rap a una chiassosa e claustrofobica sagra della salsiccia.
Ma in soccorso dell’umanità sono arrivati il nuovo internet, gli smartphone e i social media. La digitalizzazione ha consentito a tante artiste di crearsi autonomamente una fanbase e ribaltare le previsioni delle etichette, oltre ai classici archetipi delle donne nell’hiphop (una ricercatrice, Cheryl L. Keyes, li ha individuati tutti: la “Fly Girl”, la “Queen Mother”, la “Sista with Attitude” e, ovviamente, la Lesbica). Vive la liberté, dunque.
Invece no. Perché se da un lato i 2010s hanno permesso a tante nuove artiste di esprimersi, almeno altrettanti artisti sono stati penalizzati dalle loro stesse parole. Infatti tra il 2009 e il 2019 almeno 500 casi giudiziari si sono serviti di testi rap in qualità di prove vere e proprie. Secondo Justin Hansford, professore alla Howard Law School, “mentre è legittimo che la polizia si basi sui testi come traccia per le indagini, il loro uso per perseguire le persone va decisamente oltre ed è sicuramente interrelato con motivi razziali”, facendo notare che “il 95% dei pubblici ministeri sono bianchi”.
Quasi dieci anni dopo il caso di Vonte Skinner, aspirante rapper accusato di tentato omicidio e incriminato da testi scritti anni prima, nel 2014 la Corte Suprema del New Jersey ha stabilito che i testi siano da considerare materiale fittizio e non possano essere usati a meno che non abbiano una connessione diretta con il caso in questione. Eppure a pochi anni dalla decisione i nomi dei rapper che hanno subito una tanto metaforica quanto minuziosa perquisizione dei propri tesi si sono moltiplicati: dal semi sconosciuto Drakeo the Ruler, a YNW Melly, a Bobby Shmurda, fino al celebre processo RICO che vede coinvolta la rapstar Young Thug.
Nel settembre 2022, il governatore della California aveva firmato una legge che avrebbe limitato l’uso dei testi rap in tribunale. Poco dopo è stata introdotta una versione federale di quella legge, conosciuta come il Restore Artistic Protection Act del 2022, o RAP Act. Per Hansford si tratta di un “passo nella direzione giusta”, sebbene si applichi soltanto ai casi federali.