Se hai ascoltato anche solo una volta nella vita qualcosa di gangsta rap, avrai capito che si parla principalmente di una cosa: crimine. Nei testi ci sono armi, droga, prostituzione, e tutte quelle belle cose che ti aiutano ad affrontare il lunedì mattina facendoti sentire un po’ dentro GTA. Ma se sei un esperto, sei hai avuto la pazienza di ascoltare un intero album del genere, o anche più di uno e di artisti diversi, avrai capito che non si tratta di crimine casuale, fine a se stesso. Dietro c’è tutto un codice d’onore, con indicazioni precise su ciò che si può e ciò che non si può fare, che alla fine può essere sintetizzato in due parole: non infamare. Non bisogna, in nessun caso, neanche si trattasse del più acerrimo dei nemici, riportare alle forze dell’ordine i reati compiuti dagli altri. Una sorta di maestoso “chi fa la spia non è figlio di Maria” su cui, però, si basa un’intera subcultura. Bene, tu l’hai capito dopo due dischi ascoltati su Spotify; Tekashi 6ix9ine no.
Lui, sedicente membro dei Nine Trey, sottogruppo dei famigerati Bloods, ha dimostrato di non aver capito assolutamente niente della legge della strada: accusato all’inizio del 2019 di reati legati al crimine organizzato, quando ha realizzato che avrebbe potuto concretamente trascorrere il resto della vita chiuso in una cella ha scelto di collaborare in cambio di uno sconto di pena, cantando come fosse a un concerto. Tuttavia, non ha intaccato solo la reputazione di altri rapper, ma anche la sua stessa serietà: infatti, ha dichiarato di non essersi mai sottoposto al rito iniziatico per entrare nella gang e, in effetti, di non essere neanche mai stato un vero gangster, limitandosi a finanziare i Trey in cambio di protezione e credibilità. Insomma, è una specie di farsa vivente. Ed è qui che nasce il dilemma: se 6ix9ine non è un gangster, può comunque essere considerato un infame? Se in effetti non fa parte della comunità criminale, perché dovrebbe condividere il codice di valori che la fonda?